JallaJalla – il cardamomo

Puntata del 2 dicembre 2011 di “Pummarola boat”, rubrica bisettimanale dedicata alla cucina meticcia all’interno di JallaJalla su Radio Popolare di Milano, dedicata a una spezia, il cardamomo. In studio con Nello Avellani.

JallaJalla – cardamomo – 2 dicembre 2012

A seguire intervista ad Alberto, che usa il cardamomo in un liquore di sua preparazione

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Spaghetti con “barba di frate” e curcuma

La nuova entrata nella abitudini culinarie è una verdura che non avevo mai assaggiato, italianissima: la barba di frate (o barba del negus – denominazione direi vagamente spregiativa e penso risalente alle guerre coloniali). Non una verdura indimenticabile (il mio ortolano al mercato, pugliese, dice “Mi piace perché non sa di niente”), ma che ha le sue ragioni.

Si tagliano via le radici e secondo tradizione si mangia lessata o saltata in padella con l’acciuga e condita con olio e limone (l’ho provata sia cotta a vapore che stufata nella frittata), ma era l’ora di provare con la pasta.

Quando mancavano 6 minuti circa alla cottura ho messo la barba di frate nella pentola insieme agli spaghetti, per poi passare il tutto scolato in padella con olio, aglio e acciuga – ma mancava qualcosa…

Come non pensarci, la curcuma, la vera droga! Un cucchiaino e mezzo per 250 g di pasta (metà integrale secondo le ultime fissazioni), 200 g di barba di frate e tre acciughe (sotto sale); oltre a un pizzico di peperoncino. La curcuma ha amalgamato i sapori e donato anche un bel colore giallino. Giudizio finale: sapore fresco, buona, da rifare. Ma non indimenticabile…

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JallaJalla – il ghee, ossia il burro chiarificato

Puntata dell’11 novembre 2011 di “Pummarola boat”, rubrica bisettimanale dedicata alla cucina meticcia all’interno di JallaJalla su Radio Popolare di Milano, dedicata al ghee, ossia il burro chiarificato. In studio con Nello Avellani.

JallaJalla – Ghee -11 novembre 2011

A seguire intervista a Micol, che il ghee lo produce in casa

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JallaJalla – il chayote

Puntata del 28 ottobre di “Pummarola boat”, rubrica bisettimanale dedicata alla cucina meticcia all’interno di JallaJalla su Radio Popolare di Milano, dedicata al chayote, una zucca di origine sudamericana (anche nel blog). In studio con Nello Avellani.

JallaJalla – chayote – 28 ottobre 2012

A seguire intervista a Delma che racconta come cucina lo chuchu (nome brasiliano del chayote)

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JallaJalla – le alghe

A ottobre 2011 è ripartita la rubrica “Pummarola boat” all’interno di JallaJalla su Radio Popolare di Milano. In questa stagione la trasmissione è dedicata agli ingredienti “stranieri” e al loro utilizzo nella cucina italiana. Di seguito la registrazione della puntata del 14 ottobre dedicata alle alghe, in studio con Nello Avellani.

Ricette Scorrette- le alghe -14 Ottobre 2011

A seguire intervista a Barbara che racconta una sua ricetta meticcia con le alghe

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Ancora ampalaya nella frittata

In effetti non aggiungo nulla di nuovo al testo di Enrico di qualche settimana fa. Solo che in un negozietto gestito da cingalesi vicino a casa ho trovato l’ampalaya e allora non ho resistito all’idea di cucinare una frittata come aveva suggerito Enrico: uniche varianti l’assenza della pancetta (volevo far risaltare di più l’ampalaya) e un cucchiaino di curcuma (sono un drogato).

Il “melone” intero pesava 400 g (ne ho usato meno della metà), con una cipolla e 4 uova. Al primo boccone il gusto è quasi dolce, ma poi arriva l’amaro… Buona, anche se forse non è un sapore facile che può piacere a tutti.

Ora mi avanza mezza ampalaya e devo pensare come farla!

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“Buon appetito”. Una mostra interattiva sull’alimentazione

“Buon appetito. L’alimentazione in tutti i sensi” è una interessante e divertente mostra attualmente allestita al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, fino al 24 giugno 2012.

Si tratta di un’esposizione abbastanza rara in Italia, dove il soggetto della mostra è affrontato con serietà scientifica ma declinato in modo piacevole e partecipativo, “interattivo” specificano gli organizzatori. La mostra è esplicitamente rivolata a un pubblico scolare, perciò strutturato su giochi e partecipazione, ma affronta temi che anche per buona parte degli adulti sono ignoti.

(Rimane un problema tutto italiano, di rigidità accademica, che solo per i bambini le mostre vengano declinate in modo piacevole, mentre si presuppone che serietà, noiosità e rigidità siano modalità consone agli adulti. Ma questo è un altro discorso).

La mostra è raggruppata in cinque temi (“Perché mangiamo?”, “Un piatto su misura”, “Inchiesta sul cibo”, “Il cibo degli altri”, “Un appetito consapevole”) e affronta temi scientifici come i processi digestivi, il metabolismo e la filiera produttiva, accanto ad altri specificatamente culturali e di costume come il consumo consapevole e, interessante per questo blog, la percezione della cucina, della gastronomia e del gusto in diversi paesi del mondo. Ai visitatori vengono suggerite informazioni per relativizzare le tradizioni e legare il sapore alle culture di appartenenza, smontando eventuali gerarchie di valore.

gioco! Nella corsa i piatti più grassi sono più faticosi…

La mostra è organizzata da alcuni musei europei tra cui quello milanese, ma secondo notizie non ufficiali si tratta di un “format” esterno adattato alla realtà italiana con la semplice traduzione dei testi.

Unico aspetto negativo, e non di secondo piano, il finanziatamento della Nestlè. È impossibile per i musei reperire i fondi per un’iniziativa di questo tipo (con i biglietti non raggiungeranno mai il pareggio) e la multinazionale svizzera è evidentemente alla ricerca di una verginità d’immagine, ma la presenza dei suoi loghi e delle schede dei suoi prodotti (pizza surgelata e cose simili) è veramente stridente con tutto il percorso.

le diverse cucine nel mondo

da che area geografica?

Ultima pecca il costo: 3,00 € più il biglietto del museo (10,00 €, ridotto a 7,00 €) diventa una cifra di tutto rispetto, rendono l’accesso veramente oneroso soprattutto per una famiglia.

Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, Via S.Vittore 21 Milano

dal 16 ottobre 2011 al 24 giugno 2012, Martedì – Venerdì 9.30 – 17.00; Sabato e festivi 9.30 – 18.30

il dazio da pagare ai finanziatori della mostra

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Cuscus di miglio o orzo

Credo sia oggettivamente improponibile parlare di cuscus come di un nuovo ingrediente dell’alimentazione in Italia. A parte qualche manipolo residuale di leghisti, fermi all’ormai obsoleto slogan “cuscus no, polenta sì”, sono pochi quelli che non l’hanno mai mangiato, sempre di più sono quelli che lo comprano nelle confezioni precotte: lo si trova anche nei supermercati senza fare fatica, addirittura è prodotto anche da Barilla (si vede che ormai “fa casa” anche il cuscus!).

In omaggio alla tradizione magrebina – ma anche a una certa semplificazione del pensiero – il cus cus conosciuto e mangiato in Italia è soprattutto quello di semola (ne esiste una versione integrale – qualsiasi cosa voglia dire – commercializzata da Altromercato, veramente buono), ma queste poche righe sono scritte per raccomandare le versioni di orzo o miglio, presenti soprattutto nell’Africa sub-sahariana.

Io l’ho sempre trovato nelle classiche confezioni precotto, ed esistono anche altre versioni con sorgo, riso o mais ma non le ho mai trovate.

In ogni caso il sapore di questi cuscus è diverso, più saporito senza essere invasivo, forse anche con la grana un po’ più grossa, ormai usiamo solo questo Non credo siano una versione economica di quello di semola, bensì varianti regionali, anche se ho fatto fatica a trovare notizie: di sicuro quello di miglio è molto usato in Senegal, su quello d’orzo al momento non ho trovato informazioni. Per ora lo trovo solo negli empori gestiti dai cinesei e il prezzo, almeno in Italia, non sembra avere grandi differenze, ma credo sia possibile trovarlo anche nelle macellerie islamiche.

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Calendario di cucina multilingue, ovvero come la cucina facilita la comunicazione tra culture

Zaira è un facilitatrice linguistica e insegnante di italiano presso il centro interculturale la Mongolfiera di Pavia, nato da un progetto della Coop. Soc. Progetto Con-Tatto in collaborazione con il Comune di Pavia e con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Lombardia. Quest’anno hanno realizzato Un mondo di ricette, un calendario 2012 con le proposte degli studenti della scuola di italiano.

Pubblicazioni con la raccolta delle ricette di migranti sono ormai abbastanza frequenti, ma questa oltre, alla versione inconsueta del calendario, beneficia di una lucida (ed entusiasta) presentazione, che lega l’argomento della cucina all’apprendimento linguistico e, soprattutto, evidenzia come il cibo sia un tema in grado di avvicinare culture differenti.

 L’idea di scrivere un calendario multilingue di ricette dal mondo è nata due anni fa durante uno dei corsi d’italiano per adulti che teniamo al centro interculturale la Mongolfiera. Con la collega Sandra Ramundo e gli entusiasti volontari che ci accompagnano nel nostro lavoro abbiamo spesso approfittato del tema della cucina. Questo argomento ci permette infatti di entrare nella cultura di un popolo da una prospettiva privilegiata e di osservare la sua identità sempre oscillante tra tradizione e innovazione.

Si tratta quindi di sfogliare alcune pagine della sua storia, di conoscere le sue risorse naturali e quelle del suo ambiente, di scoprire i suoi diversi modi di produrre e manipolare il cibo con pratiche e utensili diversi, di vedere le sue contaminazioni con altre popolazioni e altre cucine, contaminazioni dovute non solo agli scambi economico-commerciali, o alla globalizzazione come si direbbe oggi, ma dovute soprattutto alla innata curiosità dell’homo sapiens. Così parlare di cucina è sempre un’occasione per parlare della cultura italiana e della cultura dei diversi partecipanti al corso provenienti dalle più disparate parti del mondo.

Durante alcune lezioni abbiamo presentato agli studenti delle ricette italiane come testo input dal quale partire per fare esercizi di lingua, ampliamento lessicale, riflessione sulla lingua. Abbiamo poi seguito gli studenti nella stesura di altre ricette, italiane e non, e ne abbiamo raccolto alcune nella lingua madre degli studenti. Ogni ricetta presentata o realizzata in classe è stata così l’occasione per animate conversazioni che hanno sempre visto gli studenti stranieri impegnarsi al massimo per sostenere le proprie tradizioni e opinioni sul cibo, producendo in questo modo le condizioni migliori per realizzare efficaci scambi linguistici.

Abbiamo deciso di dedicare diverse ore del corso a parlare di cucina e di cibo perché parlare della preparazione e degli usi di un argomento così universale e caro a tutti come quello del cibo ci mette in un certo senso tutti sullo stesso piano. Molto spesso, soprattutto nei primi tempi quando ancora la classe non si conosce e non si relaziona con scioltezza, gli studenti stranieri manifestano una certa ansia dovuta non solo alla scarsa conoscenza della lingua italiana, ma dovuta anche a un senso di inferiorità che certi possono provare di fronte a persone meglio scolarizzate e più acculturate di loro.

Gli adulti, più che i bambini, hanno paura di perdere la faccia davanti ai loro pari e all’insegnante facendo errori nella nuova lingua e sono anche più consapevoli della fatica che spesso si fa ad imparare a quest’età. Vedono accanto a sé chi va più veloce, chi è più bravo, e purtroppo questa pacifica diversità nel percorso di apprendimento può sviluppare un senso di inferiorità. In realtà le diverse intelligenze possedute possono portare uno studente con una scarsa scolarizzazione a risolvere meglio un compito rispetto ad un compagno più istruito ma che è solito impiegare processi cognitivi diversi.

I corsi di alfabetizzazione per adulti si caratterizzano proprio per l’eterogeneità dei partecipanti, i quali provengono da realtà anche molto differenti tra loro sotto diversi punti di vista: sociale, linguistico e culturale. Così possiamo trovare la giovane marocchina con un diploma che vorrebbe

iscriversi all’università seduta vicino all’aspirante manovale tuttofare di origini peruviane completamente analfabeta nella sua lingua madre.

Ci troviamo quindi di fronte sia a persone per le quali emigrare ha significato avere una possibilità di promozione sociale, magari grazie ad un percorso di studi o a un po’ di fortuna, che a persone per le quali emigrare ha significato guadagnare di più ma scendere di diversi gradini la scala sociale, persone che in patria svolgevano lavori da impiegati o che erano piccoli imprenditori, appartenenti alla classe media, che ora sono lavapiatti, baby-sitter, muratori.

Quale che sia la sua condizione di partenza, quando un migrante arriva nel paese di approdo il suo ruolo nella nuova società è tutto da ridefinire. La sua competenza linguistica nella nuova lingua non è certo pari a quella nella lingua madre e la sua cultura deve spesso farsi largo tra tanti pregiudizi, tanto che in certi casi deve essere addirittura momentaneamente accantonata. E allora come valorizzare le identità dei migranti? Come valorizzare le loro conoscenze indipendentemente dalla lingua, come renderli partecipi, costruttori, protagonisti anche qui, nella nuova società nella quale sono approdati?

Parlando di cibo. Chiunque di noi quando parla di una ricetta può farsi portavoce di un intero popolo; diventa un cultore della materia e tutti lo ascoltano interessati, sommergendolo poi di domande. Ognuno ha mille cose da dire, inizia il confronto: chi conosce una variante del piatto, chi non potrebbe mai mangiare un budino di maiale, chi non ha mai sentito nominare metà degli ingredienti necessari.

La classe improvvisamente si è animata, si fa lingua e nessuno ha paura di perdere la faccia perché sa bene di cosa sta parlando. Si parla così finalmente della propria cultura con slancio, la si valorizza, tutto si mescola proprio come gli ingredienti di questo calendario.

Sono stata a casa di molti studenti o amici che a vario titolo sono passati dalla Mongolfiera e abbiamo cucinato insieme queste ricette parlando della cucina dei loro paesi. Ci siamo confrontati davanti ai fornelli e tra diversi tipi di utensili, alcuni dei quali sono stati portati in Italia dai cuochi stessi perché qui non si trovano, come il grattugia cocco, immancabile nelle cucine dei cingalelesi.

Il prodotto concreto di questo incrocio di lingue e culture nel quale ogni ricetta è stata scritta accompagnata dall’originale nella lingua madre, è realizzato in questo calendario.

Zaira Mezzadra

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Frittata di cipolle, pancetta e ampalaya

Quindici giorni fa avevo intervistato Enrico per JallaJalla su radioPopolare proprio sull’ampalaya, amarissimo vegetale di cui scrissi sul blog un sacco di tempo fa. Ora ecco un suo testo con ricetta decisamente più articolato.

(personaggi coinvolti: Midori, Andrea, Rufina, Roberta e Enrico)

Ho assaggiato l’ampalaya o bitter melon per la prima volta a Okinawa. Midori, mia compagna di viaggio, mi aveva preannunciato le peculiarità culinarie di quell’isola così distante dal resto del Giappone: scherzosamente aveva detto che là non si fa altro che mangiare maiale e goya (così si chiama l’ampalaya in giapponese). Non solo, aveva anche aggiunto che gli okinawensi attribuiscono speciali virtù terapeutiche a quel vegetale e lo considerano all’origine della loro straordinaria longevità. E se i giapponesi del nord già non scherzano a proposito, quelli di Okinawa pare raggiungano età strabilianti proprio per il loro regolare consumo di goya.

Okinawa (foto Enrico Venturelli)

Allora mi capitò prima di assaggiarlo al ristorante e poi, curioso, di andare a cercarlo al mercato per vedere che aspetto avesse. La denominazione di melone amaro può trarre in inganno un lettore italiano, infatti esternamente sembra piuttosto un cetriolo: presenta la stessa forma allungata, un analogo colore verde scuro brillante ed è ricoperto di bitorzoli. Ma se si taglia in due, ecco apparire le caratteristiche che giustificano la denominazione di melone amaro: dentro infatti i semi sono tenuti assieme da una sostanza fibrosa che va rimossa con il cucchiaio, proprio come si fa con i meloni. Però il goya non si sbuccia e le due metà, eliminati i semi, si tagliano a fettine trasversali, sicché alla fine in padella finiscono tante graziose corone di circonferenza, arricciate all’esterno e lisce all’interno, che, una volta cotte, perdono buona parte del colore iniziale ma mantengono la forma senza spappolarsi. Ho letto infine che il goya viene raccolto e consumato acerbo, mentre allo stadio di completa maturazione cambia forma e colore e immagino anche il gusto.

Devo dire che al primo assaggio ho storto la bocca, Midori mi aveva avvisato, già sapevo che il goya era amaro ma non pensavo tanto! Fin da piccolo non sono mai stato un grande estimatore delle verdure amare e così, mentre masticavo, mi è venuto da pensare che stavo mangiando una verdura al sapore di Fernet. Eppure, inaspettatamente, al goya mi sono presto abituato e in pochi giorni ne sono diventato un appassionato. Va detto che a Okinawa il goya è ovunque, non solo è immancabile a tavola ma, assunto a simbolo un po’ come il biscione a Milano, compare sulle insegne dei negozi, come ciondolo per i portachiavi e perfino come panchina lungo la via commerciale di Naha, capitale dell’isola. Può dunque essere che sia stato suggestionato da tanto entusiasmo locale. Tuttavia, la mia personale conclusione è che l’amaro del goya si sposa benissimo non solo con la carne di maiale ma pure con la nota dolce che caratterizza praticamente tutte le ricette giapponesi (infatti, sia che si tratti di pesce o di carne lo zucchero è onnipresente).

Okinawa è lontana dal cuore del Giappone, è un’isola collocata molto più a sud, con clima, costumi e storia assai diversi. Per i giapponesi che vivono a Tokyo è già un po’ esotica e di conseguenza anche il goya, ovviamente noto, non rientra certo tra gli ingredienti consueti della dieta standard. Se quindi per un giapponese della capitale il goya è insolito, a maggior ragione, pensavo, non avrei mai più avuto occasione di gustarlo una volta tornato in Italia,.

Credevo infatti che si trattasse di un vegetale peculiare di Okinawa, ma stavo guardando dal punto di vista della mia amica giapponese. Solo più tardi, già a Milano, mi sono reso conto che è invece molto comune in una vasta area dell’Asia sud-orientale. Tale scoperta è stata casuale: un giorno ho visto il goya sulla copertina del libro Ricette scorrette di Andrea Perin, così gli ho scritto ed è stato lui a dirmi che quello che io conoscevo come goya nelle Filippine è noto con il nome di ampalaya.

Il passaggio immediatamente successivo è stato quello di chiedere a Rufina, la signora filippina che viene a fare le pulizie da me. Da lei volevo sapere non solo come lo cucinava ma anche dove, a Milano, se lo procurava. Divertita per i miei curiosi interessi, Rufina mi ha raccontato la sua ricetta e mi ha pure detto che potevo comodamente comprarlo al mercato sotto casa (il mercato del sabato di via Oglio)! Una notizia grandiosa, anche perché allo stesso banco ho finalmente trovato un’altra verdura che adoro: il daikon (una specie di rapanello bianco gigante comunissimo in Giappone). Ho letto in seguito che le comunità straniere, di sicuro quella cinese e filippina, sono sufficientemente cresciute da indurre alcuni agricoltori a produrre localmente verdure esotiche, sicché non è più necessario recarsi nei negozi di prodotti orientali visto che si trovano fresche e a buon prezzo a due passi da casa.

La ricetta di Rufina, che ho sperimentato ma alla mia maniera, prevede i seguenti ingredienti: ampalaya, aglio, cipolla, pomodoro, carne di maiale (oppure gamberi), uovo, sale. Si comincia soffriggendo aglio e cipolla, si aggiungono poi il pomodoro e il maiale a pezzi, quindi l’ampalaya, il sale e si cuoce per bene. Alla fine, a parte, si prepara dell’uovo strapazzato (scrumble, dice Rufina) che poi si aggiunge al resto mescolando tutto per bene.

Io sono andato per sottrazione: ho usato solo cipolla, ma mi sa in quantità ben superiore a quella che impiega Rufina, e ho invece omesso l’aglio (perché se già c’è la cipolla…), il pomodoro (perché la sua acidità non mi sembrava opportuna) e infine l’uovo (per semplice riluttanza personale). Così è diventato uno spezzatino di maiale dolce-amaro, solo con cipolla e ampalaya, che Roberta, mia speciale assaggiatrice e vicina del piano di sotto, ha molto apprezzato.

In seguito ho pensato che avevo introdotto troppe modifiche: per esempio i pomodori, se ben maturi, meritavano forse di essere reintrodotti (per sperimentare aspetterò però l’estate). Ho anche soppesato l’opportunità di aggiungere pepe o peperoncino, ma non sono per ora passato all’azione. Ho infine riconsiderato l’uovo, non nella forma strapazzata ma come legante, ed ecco come sono approdato all’idea di una familiare frittata di tante morbide cipolle, pancetta (maiale a cubetti) e ampalaya!

Enrico Venturelli

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