Ampalaya

 

Per essere amara, è amarissima, altro che cime di rapa o lampascioni. In Italia è ancora una presenza quasi clandestina, sostanzialmente sconosciuta al di fuori della comunità filippina. Per loro si chiama ampalaya (momordica charantia), ma è nota in generale come zucca amara (bitter melon o bitter gourd) e fa parte dell’enorme schiera di verdure che tutto l’Oriente produce e consuma e che l’Occidente ignora quasi completamente.

È un frutto verde e bitorzoluto, di un bel verde, cucinato dalla Cina all’India dove assume nomi diversi a seconda delle regioni. Ho parlato per esempio con due ragazze indiane del Kerala che ignoravano cosa fosse l’ampalaya, ma una volta vista l’hanno riconosciuta come pavaka (nome traslitterato dal malayam).

I filippini ne vanno ghiotti e sostengono che fa anche fa benissimo alla salute: in effetti è usata in varie medicine tradizionali in Asia, e le vengono attribuite numerose virtù, dalla digestione al trattamento della malaria. In effetti è già entrata nel mirino delle multinazionali: secondo un attivista filippino citato qualche anno fa da “il Manifesto”, questa zucca è ormai coperta “da tre brevetti di proprietà del Us National Institute of Health, l’esercito Usa (Us Army) e la New York University (rispettivamente i brevetti numero Us 5484889, Jp 6501089 e Ep 553357)”. L’ampalaya inoltre si è rivelata capace “di abbassare il livello di glucosio nel sangue. L’azienda farmaceutica Cromak Research Inc, del New Jersey, ne ha estratto un farmaco anti-diabete, e l’ha ovviamente brevettato (brevetto Usa numero 5900240)” (cfr. “il Manifesto”, 31 Gennaio 2001).

Come si diceva, gli italiani non la conoscono e non la consumano, ma lentamente da verdura legata alla nostalgia di casa, cresciuta in balcone o portata dai parenti di ritorno, oppure importata nei negozietti etnici, sta diventando un prodotto delle campagne italiane. Per il momento soprattutto grazie a un sistema informale composto da innumerevoli orti privati intorno a Milano che la smerciano “porta a porta”, insieme ad altre verdure come
l’okra. Ma un po’ alla volta sta entrando anche nel mirino dei produttori nostrani: “A Triginto di Mediglia, nelle campagne milanesi, Sergio Scotti della Coldiretti coltiva infatti pak choi, il cavolo cinese, assieme a ocra, ampalaya o zucca amara. ‘Ho cominciato
con il coriandolo, una specie di prezzemolo, ma ormai lo fanno tutti. Ci sono tanti extracomunitari che cercano le loro verdure e allora mi sono messo a coltivarle. Tutti i sabati sono all’ortomercato di Milano, quando è aperto al pubblico, e davanti al mio banco
c’è sempre la fila. (…) L’ampalaya no, non mi piace. È amarissima. I filippini invece ne vanno matti. Mi raccontano che la usano anche come una medicina: il giorno dopo che hai bevuto troppo ti fa stare molto meglio. Dicono che è diuretica’” (cfr. Repubblica, 10/ febbraio 2009, pag.31).

Uscirà dalla enclave filippina per entrare anche nella cucina italiana? È possibile, ma al momento non è facile prevedere come. Ho acquistato l’ampalaya in un supermercato etnico (importata dall’Indonesia, arriva una volta alla settimana), dove viene anche venduta in scatola (con latte di cocco, cipolla, aglio, gamberetti e peperoncino; product of the Philippines): un po’ inquietante, mi ricorda i ravioli in scatola, non so se avrò il coraggio di assaggiare. Ho provato a cucinare quella fresca saltata in padella con la cipolla, dopo averla svuotata dei semi e tagliata a pezzi: ho avuto bisogno di mangiarla con un formaggio che addolcisse il gusto.

Le ragazze del Kerala mi hanno detto che loro lo preparano ad esempio tagliata a fettine sottili con la cipolla, in padella con olio (“di cocco”), peperoncino e cocco grattuggiato. Questa non sembra male.

Informazioni su Andrea Perin

Architetto museografo, cultore della cucina per passione
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