Spezzatino pseudo-esotico

Ancora una ricetta di Enrico. Il titolo è divertente e azzeccato, e potrebbe suggerire anche una riflessione sul valore dell’esotismo in cucina.

È un termine che di solito si usava per definire un piatto diverso dal consueto, con ingredienti “stranieri” che gli conferivano un sapore inconsueto; oggi mi sembra sostituito dal termine “etnico”, ritenuto forse più politicamente corretto. Ambedue non vogliono dire molto, sono fumosi e indistinti, implicano categorie del “qui” e “altrove” che in cucina si superano in un attimo: gli ingredienti “stranieri” diventano in fretta quotidiani e l’esotismo svanisce. Una volta di più: non esiste scorrettezza in cucina, esiste una realtà in movimento ed esistono i gusti, personali ed eventualmente condivisi.

Divertente insomma questo titolo, in una ricetta dove lo (pseudo) esotismo è dato da una combinazione inconsueta di ingredienti consueti. Buon appetito.

La ricetta dello spezzatino pseudo-esotico è frutto di una personale, a volte inopportuna, combinazione tra curiosità e pigrizia. Se infatti mi diverte molto leggere ricettari, e ancora di più se di paesi lontani, spesso però mi spazientisco pensando a dove potrei procurami gli ingredienti richiesti. Ovviamente trovare ingredienti insoliti a Milano è ogni anno sempre più facile, tuttavia l’idea di partire in viaggio per un fruttivendolo o un droghiere dall’altra parte della città continua ad essermi poco gradita.

Così il mio lato pigro, dopo una serie di prove e assaggi, è approdato negli anni a una semplice ricetta ma dal gusto esotico, per la realizzazione della quale solo servono ingredienti comunissimi. Si tratta di un normale spezzatino di carne, il cui insolito sapore è dato dall’aggiunta di peperoncino, limone e miele (oppure zucchero).

Ma per spiegare come sia arrivato a tale risultato, bisogna tornare indietro di 15 anni, quando mi regalarono un libro di cucina a cui ora sono affezionato come a un balocco dell’infanzia. Si tratta del mio primo ricettario in inglese, ricco d’immagini e molto divulgativo, dono di un’amica che vive a Londra da anni. Ecco l’indicazione bibliografica: Sarah Woodward, intitolato The Classical Mediterranean Cookbook, London, Dorling Kindersley, 1995.

Editore e autrice inglesi, ma nostrano l’argomento, o almeno così può sembrare prima di aprire il volume (ricordo di essermi chiesto come mai l’amica avesse deciso di regalarmi un libro inglese su tale tema). Il libro fu invece una vera sorpresa perché fornisce una bella selezione di ricette da tutte le cucine che si affacciano sul Mediterraneo. Un’impostazione molto originale che offre ricette non solo spagnole, catalane, provenzali, italiane e greche, ma anche marocchine, tunisine, egiziane, libanesi e turche! Allora non avevo ancora visitato alcun paese arabo, e se qualcosa già sapevo di ricette italiane, ero invece all’oscuro di cosa succedesse in cucina dall’altra parte del mare. Devo quindi a questo libro il mio primo incontro con la gastronomia nordafricana.

Confesso però di aver sospettato all’inizio che le ricette fossero, per così dire, un po’ anglicizzate, cioè rappresentazioni non troppo fedeli delle cucine d’origine. Ma dato che il libro forniva un bel gruppetto di ricette italiane, mi sono detto, controlla quelle, e se sono rispettose, potrai fidarti anche delle altre. E così ho fatto, ho esaminato parmigiana, caponata e zuppa di pesce e non ho trovato nulla che mi turbasse.

Potevo quindi procedere tranquillo nella lettura delle ricette dell’altra sponda del Mediterraneo, e due cose mi colpirono subito, la varietà delle spezie usate e il limone quasi onnipresente, come succo o a pezzi, fresco o conservato sotto sale.

Dopo tutto quell’assaporare leggendo, non so dire perché ma sono passato all’azione solo con due ricette, ripetendole anche più volte, per vedere come sortissero mettendo o togliendo questo o quello. Le due prescelte furono Couscous aux sept legumes, prelibatezza dal Marocco, e Khoshaf, una macedonia di frutta secca ammollata e profumata da acqua di rose e fiori d’arancio.

Comunque, il mio prediletto è stato a lungo il couscous delle sette verdure, la cui ricetta S. Woodward commenta così: “The key to couscous is not the fine semolino grain itself, but the luxuriant sauce with wich it is served. This version from the magical Maroccan city of Fez brings together the produce of the vegetable market in a delicately spiced broth. You can use whatever vegetable are available, but there must always be seven for luck” (p. 131).

Mi è sempre piaciuto il tono perentorio di certe ricette, in questo caso mi divertiva molto la consegna di rispettare il sette per la fortuna. Ma ciò che allora trovavo addirittura esilarante era lo squadrone impressionante di ingredienti da mettere in campo. Ai primi esperimenti, mentre controllavo che ci fosse tutto prima di cominciare, mi sembrava di essere a scuola al momento dell’appello: Coriandolo? Presente. Curcuma? Presente. Uva Passa? Uva Passa, non c’è? Prof, c’è. E’ in bagno!

Scrivo di seguito gli ingredienti previsti, dite un po’ se non sono un battaglione: Agnello o pollo (opzionali), burro, sale, aglio, cipolle, pomodori, cannella, zafferano, curcuma, pepe, coriandolo e prezzemolo freschi, uva passa, ceci secchi, carote, rape, zucca, zucchini, fave e piselli freschi, couscous e harissa.

Fin dai primi tentativi non ho mai preso in considerazione di rinunciare a cuocere le verdure nel brodo di carne, ho provato sia pollo che agnello, e ho concluso che preferisco il secondo. C’era poi la questione del burro, 90 grammi mi sembravano troppi, all’inizio ne ho usato meno e con riluttanza, ma poi mi sono reso conto che proprio ci vuole, senza è altra cosa. Quindi la questione del coriandolo per il quale non nutro simpatia, problema che ho risolto semplicemente facendone a meno. E infine, anche se non previsto, ho deciso che avrei usato il limone. Nelle altre ricette nordafricane compare davvero quasi sempre, dunque perché non metterlo anche in questa, tanto più che mi sembrava ideale per smorzare un po’ il sapore dell’agnello. È da allora che ho cominciato ad introdurre almeno mezzo limone in quasi tutti i brodi di carni e verdure (e se i limoni non sono trattati lascio anche la buccia).

Ora immaginate, per concludere, di sfrondare senza pietà la ricetta marocchina, per trasformarla in un piatto pronto in mezz’ora e fatto con quello che in casa c’è sempre. Ecco ciò che resta: carne, sale, aglio, cipolle, carote, sedano, pomodori, peperoncino, limone e miele (o zucchero). Come si può notare sul peperoncino cade l’onere di sostituire tutte le spezie, e se non si aggiungesse limone e miele la suggestione esotica se ne andrebbe del tutto. Alla fine è semplicemente un piatto piccante in agrodolce, ma stuzzica per il sapore inconsueto, perlomeno ai palati padani.

La preparazione è a naso e a calderone, la carne va soffritta con aglio e peperoncino, si aggiungono poi cipolle, carote e sedano tagliati grossolanamente, vengono quindi i pomodori e il limone (mezzo o intero se non è molto succoso), acqua se necessaria, sale e, verso la fine, il cucchiaio miele. Non trattenetevi dall’assaggiare, anche più di una volta, per verificare che agro, dolce e piccante siano ben apparentati. Trovo che il piatto sia migliore tiepido, il riso bianco accompagna benissimo.

Enrico Venturelli, enrico.venturelli@libero.it

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Manioca al forno

Tornato dal Brasile, dopo un mese in Mato Grosso, ero convinto che non ci fosse al mondo un tubero migliore della manioca; in quelle zone la mangiano in tutte le maniere: lessa, fritta, in una farina granulosa… Originaria proprio del Sud America, e infatti la consumavano anche gli indios più tradizionali (lessandola il più delle volte), è ormai diffusissima anche in Africa e in Asia.

Con il tempo e la pigrizia, sono tornato ai sapori rassicuranti della nostrana patata, ma qualche sera fa ho voluto riprovarne il sapore e ho preparato la manioca la forno.

L’acquisto è facile, questo tubero è spesso presente spesso nei supermercati e a volte anche in qualche bancarella, ma nei negozi etnici la si trova quasi sempre. Questo pezzo da mezzo chilo viene da una botteguccia cingalese, vicino a casa.

La buccia non è come quella della patata, ma coriacea e dura. Anche la polpa è differente, meno tenera, tende a spezzarsi; all’interno c’è poi un filamento da togliere.

Ma per il resto si procede come con la patata. Si taglia a pezzetti, si mette al forno per quaranta minuti circa, finché è tenera, condita con olio, rosmarino e aglio.

È stata apprezzata a tavola anche se non mi è venuta la crosticina come per il nostro tubero nazionale, rispetto al quale il sapore è forse un po’ più deciso e meno dolce.

Costa di più della patata, al momento, ma non di molto. E comunque ne vale la pena.

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Ricetta d’azienda: “boulgour a la carbonara”

L’altro giorno ho acquistato al supermercato una scatola di boulgour, il grano spezzato molto cucinato in Medio Oriente. Di solito lo prendo nei negozietti, dove peraltro costa molto meno, ma avevamo voglia di mangiarlo a cena.

Si tratta di un prodotto decisamente meno frequente del cous cous per i negozi italiani e questo, confezionato manifestamente per gli europei da una ditta francese, mi incuriosiva una po’.

Insomma per farla breve, una volta arrivati a casa vedo che le istruzioni di cottura (essenziali) sono in più lingue, ma solo nella versione francese e olandese viene offerta una ricetta: “boulgour a la carbonara”.

È un esempio di incontro culinario-industriale che lascia sinceramente perplessi: la ricetta della “carbonara” è decisamente lontana da quella comune in Italia, pur con le varianti che si vogliono, in quanto manca di alcuni elementi difficilmente imprescindibili, come ad esempio l’uovo. Così come è altrettanto improbabile che sia un piatto consueto in Medio Oriente, visto tra l’altro l’uso del maiale (lardon).

Non si tratta di “difendere” un piatto italiano dalla contaminazione, ovviamente, ma di essere preplessi da questa operazione:  una ricetta pensata da un “creativo” (?) aziendalista, alla ricerca furbetta di stimolare gli occidentali (ma non gli italiani, visto che manca il testo in questa lingua) ad acquistare un prodotto straniero e sconosciuto.

Con un risultato francamente goffo.

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JallaJalla- Storia del Panettone

Registrazione della puntata del 24 dicembre 2010, in studio con Paolo Maggioni (JallaJalla – Radio Popolare), dedicata alla storia del Panettone alla milanese.

24 dicembre – Panettone

Ecco due ricette, anzi le ricette più vecchie che sono riuscito a trovare del Panattone, rispettivamente del 1867 e 1887. Come vedete, sono molte le differenze con il prodotto industriale cui siamo ormai abituati.

Panattone di Milano

Pigliate un chilogr. di farina, mettetela sopra una tavola e fatevi un buco, nel quale collocherete 20 gram. di lievito disciolto in un po’ d’acqua tiepida. Formate una porzione di pasta, copritela colla farina che rimane, e lasciatela riposare alquanto in luogo caldo; dopo alcune ore aggiungete 3 ettogr. di burro, 3 ettogr. di zucchero, 12 rossi d’uova, 2 ettogr. di zibibbo mondato e lavato, ed un poco d’acqua colorata con zafferano; mescolate ed impastate bene insieme il tutto, osservando che la pasta non riesca troppo dura; che se riuscisse tale, vi aggiungerete delle uova. Formate con questa pasta una specie di pane, sul quale praticherete don un coltello due tagli in croce poco profondi, e lascerete nuovamente lievitare per altre 4 o 5 ore; indi fatelo cuocere al forno non troppo caldo, finché abbia preso un bel colore carico.

(Il cuoco pratico ed economo, Ernesto Oliva, Milano 1867, p.227)

Panattone alla Milanese

ingredienti: Farina, lievito, burro, ova, cedrato ed uova, zafferano Un chilogrammo e mezzo di farina, 25 gr. di lievito sciolto in acqua tiepida. Fate la pasta, infarinatela e ponetela in luogo caldo. Due ore dopo aggiungete 4 ettogrammi di burro, 15 rossi d’uovo, 3 ettogrammi fra cedrato e uva dolce, e un pizzico di zafferano sciolto nell’acqua. Impastate, formate un pane, al quale con due tagli in croce darete l’aspetto caratteristico, indi lasciate riposare per altre 4 o 5 ore. Fate cuocere lentamente a forno non troppo ardente.

(Cav. ANNA MARIA, Il Pasticcere universale, Paolo Carrara, Milano 1887, p. 128)

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Riso al gusto di sedano

Il termine “minuscola” che usa Enrico a proposito di questa sua ricetta è fin troppo minimalista. Forse dico così perché le ricette con più di due pentole per volta mi mettono l’ansia, ma sicuramente perché mi piacciono le ricette che prendono spunto dalla curiosità.

Il riso al sapore di sedano è una ricetta minuscola, ma anche se è fatta quasi di nulla ha alle spalle una storia divertente, dato che è il piccolo frutto, consolidatosi nel tempo, di una convivenza del passato.

Tanti anni fa il mio compagno era brasiliano e una delle cose che all’inizio più mi sorprendeva era che a lui proprio non piaceva il pane. Non riuscivo a crederci, fino ad allora non avevo mai incontrato qualcuno a cui non piacesse. Va detto che nella mia famiglia d’origine si coglie giusto l’occasione di mangiare dell’altro per accompagnarlo al pane, e se un pasto senza pane è impensabile per mio padre, di uno dei miei nonni si racconta addirittura che mangiasse pane e torta.

Invece, al mio compagno il pane non diceva proprio nulla e ricordo con divertito raccapriccio la prima volta che ho assistito al suo modo di mangiar salumi: la fetta di salame veniva infatti presa con le dita, piegata in due, leggermente intinta nel sale e così portata alla bocca, il tutto in totale assenza di grissino, crostino o qualsiasi altro parente anche alla lontana del pane. Fu così inevitabile che quella convivenza portasse ad un aumento esponenziale del consumo di riso in casa mia. Imparai ad apprezzarlo in accompagnamento un po’ a tutto e a cucinarlo correttamente. Acquistai pure un pentolino a fondo spesso, che fosse adatto alla preparazione quotidiana dell’irrinunciabile riso bianco. Ma se all’inizio mi piaceva, col tempo cominciai a trovarlo un poco sciapo.

Solo molti anni dopo scoprii che dal mio compagno avevo appreso la maniera più austera di preparare il riso alla brasiliana, quella che prevede solo riso, acqua e olio, senza alcun altro ingrediente, nemmeno il sale. Allora non sapevo che, come ogni ricetta importante per una comunità, anche quella per il riso brasiliano è una ricetta-arcipelago, con un nucleo di pratiche e di sostanze irrinunciabili ma poi anche un nugolo di possibili aggiunte a seconda del gusto o delle consuetudini.

Il nucleo della ricetta del riso alla brasiliana è costituito innanzi tutto da una procedura che mira a mantenere i chicchi ben sgranati fino a fine cottura. Per conseguire tale risultato bisogna eliminare il più possibile l’amido lavando il riso in acqua fredda, poi il riso va tostato per bene con un po’ d’olio, quindi cotto in acqua senza mai mescolarlo (se no rilascia ancora amido), e infine, quando l’acqua è pressoché tutta assorbita, si abbassa la fiamma, si mette il coperchio e si fa cuocere ancora un poco in modo che la fase finale di cottura sia a vapore.

Quando cominciai a pensare che avrei preferito un riso più saporito, per qualche tempo mi sentii un po’ un profanatore. Ma poi scoprii che moltissimi brasiliani, forse la maggioranza, preferiscono un riso più gustoso e non usano solo il sale (o anche il dado), ma anche soffritto di aglio e cipolla, e, volendo, pure un po’ di battuto di pancetta. Appurato quindi che potevo insaporire visto che lo si fa anche in Brasile, ho cominciato a sperimentare.

Per arricchire il sapore non volevo però andare nella direzione del risotto, perché quest’ultimo, per le mie radici padane, è irrimediabilmente un primo e a mangiarlo insieme con la carne mi pare di fargli torto. Così, mantenendo intatta la procedura di cottura brasiliana, ho pensato che potevo insaporire l’acqua in cui poi avrei cotto il riso. Ho iniziato provando con l’acqua di bollitura di alcune verdure.

Il risultato non è stato però soddisfacente finché non ho provato con il sedano, una verdura che amo molto e spesso faccio bollire e poi frullo per ottenere una crema che quindi condisco con lattuga iceberg (conosciuta anche, e qui sembra non essere un caso, come lattuga brasiliana) sminuzzata, olio crudo e pepe. Una volta ho dunque usato l’acqua di cottura del sedano per fare il riso, e questa volta il risultato è stato davvero gradevole. Gli ingredienti per circa 4 porzioni di riso, in accompagnamento per esempio a uno spezzatino di manzo, sono:

1 cucchiaio d’olio d’oliva, 2 bicchieri di riso basmati, o varietà affini, 4 bicchieri d’acqua di cottura del sedano, un pizzico di sale, eventualmente.

Ho anche provato a fare semplicemente rinvenire il riso parboiled nell’acqua di sedano, e il risultato è stato altrettanto buono. Rammento che il riso al sedano va bene se accompagna piatti di carne poco piccanti o speziati, altrimenti il gusto del sedano scompare del tutto sovrastato dagli altri sapori.

Enrico Venturelli, enrico.venturelli@libero.it

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JallaJalla – Storia del Baccalà e dello Stoccafisso

Registrazione della puntata del 10 dicembre 2010, in studio con Paolo Maggioni (JallaJalla – Radio Popolare), dedicata alla storia del Baccalà e dello Stoccafisso.

10 dicembre – Baccalà e Stoccafisso

Con intervista a Carolina che racconta la Pasta con merluzzo e curry (dell’isola di Reunion)

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“Sushi italiano”, con wurstel e peperoni

Uno che mangerebbe anche sushi di serpente” è un’espressione giapponese usata per definire chi è pronto a mangiare qualsiasi cosa1. Tenendo presente che non esiste un sushi di serpente, e per la verità non esiste un sushi che non sia con pesce crudo. Tutto questo non ha spaventato il mio amico Fabio, grande cuoco, dal realizzare questo suo Sushi italiano.

La ragione di questa ricetta un è po’ stravagante. In casa siamo in quattro: io, mia moglie Barbara e i miei figli Paolo e Davide, ognuno di noi con gusti completamente diversi, quindi per cercare di accontentare tutti mi devo ingegnare con un po’ di fantasia e creatività.
Io e Paolo adoriamo la cucina giapponese e in modo particolare per il pesce crudo, quindi ogni tanto ci prepariamo il
sushi con il salmone o il tonno, insomma quello classico. Per Barbara e Davide preparo questa variante con il peperone e il w
ürstel o il formaggio, oppure con altri ingredienti che non c’entrano nulla con il pesce crudo. Ho provato a farli anche con speck e brie: sono favolosi.
Penso che in cucina sia bello poter giocare con il cibo. A me piace molto mischiare gli ingredienti di varie ricette e tirarne fuori una mia che non c’entra nulla, come ad esempio sostituire i nostri piatti tipici a base di polenta con il cous cous. Bisogna solo aver molta fantasia, e poi in fondo di scorretto non c’è nulla, anche in passato le migliori ricette sono nate da sbagli o da azzardi. Quindi continuate ad essere scorretti.

Io faccio il Sushi italiano come antipasto, piace a tutti ed è simpatico da portare in tavola.

Gli ingredienti sono: 1 confezione di alghe, 300 g riso basmati, 3-4 cucchiai di aceto di riso, 1 confezione di würstel, 2 peperoni, formaggio grana, aglio, prezzemolo

Faccio cuocere il riso con una quantità di acqua salata pari al doppio del suo peso, fino al suo totale assorbimento. A fine cottura aggiungo 3­­- 4 cucchiai di aceto di riso e lascio riposare il tutto cinque minuti prima di iniziare a fare i rotolini.

Nel frattempo vanno preparati i peperoni al forno: li metto su una teglia nel forno a 200 gradi e li lascio finché non sono belli abbrustoliti. Tolti dal forno, gli levo la pelle ed i semi, li taglio a striscioline poi li metto in una ciotola e li condisco con sale, olio, aglio e prezzemolo. Poi taglio nel senso della lunghezza i würstel. A questo punto sono pronto per finire la ricetta.

Predo un tappetino da sushi in bambù e metto per prima la foglia di alga, poi aggiungo un po’ di riso e con il cucchiaio lo stendo per bene, quindi i würstel, i peperoni e il formaggio grana grattugiato, e arrotolo il tutto. Con un coltello seghettato, taglio il cilindro ottenuto in cilindretti alti circa 1 cm.

Dispongo il tutto su un piatto di portata e . . . buon appetito

Fabio Pasi

1 – Graziana Canova Tura, Il Giappone in cucina, Ponte alle Grazie, 2006, p. 172


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JallaJalla – Storia degli gnocchi

Registrazione della puntata del 26 novembre 2010, in studio con Paolo Maggioni (JallaJalla – Radio Popolare), dedicata alla storia degli Gnocchi.

26 novembre – gnocchi

Con intervista a Micol che racconta gli Gnocchi di riso cinesi

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Carciofo a Miami. Ovvero come può essere pericoloso un alimento sconosciuto.

È una notizia che gira nel web da qualche tempo.

Un avvocato cubano, Arturo Carvajal, nel 2009 ha chiesto in un ristorante di Miami un piatto di grilled artichokes, carciofi grigliati. Ma non conoscendo la verdura, si è mangiato tutto, spine comprese e, con i comprensibili dolori seguiti, ha deciso di fare causa all’esercizio commerciale stesso perché non gli aveva spiegato come si consuma un carciofo.

Storiella divertente, tranne che per l’avvocato ovviamente, che suscita prevedibili ironie nei vari blog e addirittura consigli su come si mangia l’ostica e potenzialmente perniciosa verdura (http://www.digitaljournal.com/article/300448), ma che lascia anche spazio a più sfiziose considerazioni sui rapporti con gli alimenti e i piatti sconosciuti.

L’esempio storico più famoso in Italia è forse il mais, importato dalle Americhe e utilizzato come farina per la polenta al posto dei grani minori soprattutto a partire dal Settecento. La mancanza nel mais di alcune vitamine, in particolare la niacina, in una dieta a base di sola polenta come capitava spesso alle miserabili popolazioni dell’Ottocento, comportò la pellagra, malattia che conduceva spesso alla morte. Nei paesi di origine il mais era preparato in maniera da evitare queste conseguenze ma nessun conquistador si è mai occupato di cosa facessero i popoli occupati.

Insomma è andata ancora bene allo sprovveduto avvocato cubano.

E tutto sommato questa notizia è uno stimolo ancora maggiore per assaggiare, qui i Italia, tutti i nuovi alimenti che si stanno affacciando sui banconi dei negozi, senza dimenticare che sono tutti legati a una cultura e a una pratica. E che prima di farli propri e di usarli anche a piacimento, bisogna conoscere bene.

http://www.dissapore.com/primo-piano/esotico-chi-se-un-cubano-mangia-un-carciofo-intero-con-le-spine/

http://blogs.miaminewtimes.com/riptide/2010/11/arturo_carvajal_sues_north_mia.php

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“Tsukemono” di peperoni. Per guarnire la “Taramosalata pop”

Per chi avesse notato che nella ricetta della taramosalata pop mancava un pezzo rispetto alla foto, ecco il seguito di Enrico.

Al momento di portare in tavola la taramosalata pop propongo come guarnizione, non essenziale ma gradevole alla vista, tsukemono di peperoni verdi dolci; e, volendo, un po’ di feta sbriciolata in cima al composto, per aggiungere un terzo tocco di colore.

Tsukemono sono verdure sottoposte a un trattamento, più o meno complicato, di macerazione che prevede l’utilizzo innanzi tutto del sale, ma anche della crusca di riso e di molti altri eventuali ingredienti utili a insaporire ulteriormente. Durante il mio primo viaggio in Giappone, ospite di un’amica di lunga data, l’incontro con tsukemono di cetrioli, melanzane, daikon (ravanello bianco gigante) è stata la scoperta di una nuova landa del gusto. Le verdure risultano appassite, verrebbe da dire “frollate”, per aver perso gran parte dell’acqua in esse contenuta a contatto con il sale per alcune ore o anche qualche giorno.

In fin dei conti è lo stesso procedimento cui noi italiani sottoponiamo le melanzane prima di cucinarle, solo che a me non sarebbe mai venuto in mente di mangiare le verdure così, direttamente, dopo averle soltanto macerate! Le verdure così trattate restano parzialmente croccanti, mantengono colori vivaci e risultano insaporite dal sale. Sono gradevolissimi stuzzichini a inizio pasto.

La più facile maniera di preparare tsukemono in casa è denominata shiozuke, e consiste nel lasciare riposare in una ciotola in frigorifero la verdura prescelta, tagliata a pezzetti, mescolata al sale e schiacciata da un oggetto pesante. A seconda della consistenza delle diverse verdure varia il tempo di macerazione. Io ho provato ad usare i peperoni verdi dolci, quelli che normalmente nella cucina italiana si consumano fritti. Ne ho tagliati 5 o 6 a fettine sottili della lunghezza di un fiammifero, li ho mescolati per bene con un cucchiaio di sale e poi li ho lasciati, pressati in una scodella, in frigorifero fino al giorno dopo. Dopo una notte così le striscioline di peperoni si arricciano, diventano più tenere e saporite, senza perdere il verde brillante del prodotto fresco.

Enrico Venturelli, enrico.venturelli@libero.it

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