Gli arancini di burgul e le chilocalorie

l Milano Film Festival è una manifestazione molto apprezzata e assai frequentata. Variano i giudizi sulle pellicole, ma non è raro sentire mugugni sulla qualità (e i prezzi) dell’offerta della ristorazione.

Ma agli arancini fatti con il burgul non ho saputo resistere, sono un goloso di arancini di riso con poche occasioni di soddisfazione, ma il risultato è apparso purtroppo modesto. Come è giusto ripetere, non è che il meticciato garantisce per forza risultati migliori, soprattutto quando è esperimento e non pratica diventata consueta e condivisa. E forse in questo caso era più cucina fusion, ma probabilmente questo è un mio pregiudizio.

Comunque il riso negli arancini funziona decisamente meglio, con il burgul sono troppo friabili e secchi, manca la pastosità del riso.

Ma siamo rimasti sconcertati dalla indicazione, sul prospetto del bar, delle chilocalorie per ognuno dei piatti proposti. Più che un’attenzione salutista è sembrata molto una trovata modaiola e anoressizzante: insomma, vorrei sapere se qualcuno ha scelto in base alle kcal. E poi è un messaggio ambiguo: le 450 kcal degli arancini valgono per uno o per tutti e tre? Nel dubbio ho mangiato tutto….

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Arroz chaufa

Era un pezzo che volevo cucinare questo piatto, dopo che l’avevo provato nei vari ristoranti peruviani. Si tratta di un vero piatto di origine meticcia, che nasce probabilmente dai cuochi cinesi che lavoravano in Perù, in pratica un riso alla cantonese alla maniera peruviana.

“Es 100% peruana ya que no existe en el mundo ni en China el arroz chaufa que es una creación netamente de la creatividad y el ingenio peruano” (da un blog peruviano).

Per ricette di questo tipo e con questa storia non esiste la ricetta ”esatta”, essendo le varianti infinite e personali. Rimangono comunque alcune costanti, come la presenza della carne – frequentissima nella cucina peruviana (i ristoranti italiani sono una frequentazione difficile per i vegetariani) – la tendenza a essere rico, ossia con molti ingredienti, cosa che fa dell’arroz chaufa un vero piatto unico. Necessaria poi assolutamentela salsa di soia, opzionale il coriandolo.

Lo ho cucinato due volte, nella versione semi-vegetariana (per rispetto di alcuni commensali) solo con verdure e gamberetti, e uno anche con carne di pollo (ingrediente più frequente nei piatti tradizionali – 2 sovra-coscie) e maiale (400 g di lonza). Le verdure sono quelle di stagione e perciò potrebbero variare a seconda del periodo e del sentimento, dandogli inevitabilmente una connotazione personale e italiana.

La ricetta è perciò più uno schema che una formula esatta, ognuno poi se la aggiusta come crede. Per 5-6 persone (un po’ ingorde) ho usato circa 800 h di riso (vialone), 4 carote, 4 zucchine, 8 cipolle di tropea, 2 h di piselli, 4-6 uova, salsa di soia, coriandolo, olio (in aggiunta carne o pesce).

Tagliate le verdure a pezzetti e fatele saltare nel wok caldissimo qualche minuto, aggiungendole a seconda della durezza, avendo cura di tenerle croccanti. Salate leggermente.

Cuocete a parte la carne (a pezzetti) con un po’ d’olio e i gamberetti e preparate con le uova delle frittate sottili. Lessate il riso (ho provato pilaf ma è meglio lessato) senza sale (o con pochissimo) e versatelo nel wok con le verdure, innaffiando di soia. Aggiungete la carne (o il pesce o tutte e due) e solo in ultimo le frittatine e il coriandolo tritato.

La quantità è esagerata, pensavamo ne avanzasse qualcosa per il giorno dopo (ho sempre l’ansia che il cibo sia poco) ma tutti ne hanno mangiato due o tre piattoni e non ne è avanzato nulla.

Noi lo abbiamo accompagnato con dell’ottimo gutturnio o della superba malvasia istriana, ma un vero peruviano avrebbe bevuto inca cola, una bevanda dolce e gasata, a mio gusto stucchevole (sa di cicca dolce), ma che è apprezzata più della coca-cola (amata ovunque in Sud e Centro America).

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JallaJalla – anacardi

Puntata del 13 aprile 2012 di “Pummarola boat”, rubrica bisettimanale dedicata alla cucina meticcia all’interno di JallaJalla su Radio Popolare di Milano, dedicata agli anacardi. In studio con Nello Avellani.

JallaJalla – anacardi – 13 aprile 2012

A seguire intervista a Francesca, che ha usato gli  anacardi per fare una torta

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EUROMANGIANDO a Rovato (BS)

Nell’ambito dell’edizione 2012 del CoolTour, evento organizzato dall’Associazione Liberi Libri DI Rovato (BS), che quest’anno avrà come filo conduttore dell’intera settimana il rapporto tra i cittadini e l’Europa.

EUROMANGIANDO

Sabato 15 Settembre, ore 17.00, Salone del pianoforte del comune di Rovato (BS)

Andrea Perin, museografo e curatore, esperto di tradizioni alimentari e studioso degli intrecci fra cibo e cultura, aprirà al pubblico una prospettiva insolita su come la naturale esigenza biologica di nutrirsi sia in realtà specchio di trasformazioni storico-sociali. Conversando con il giornalista Fabio Larovere, Perin illustrerà come nell’Europa di oggi ci sia un’inevitabile e crescente contaminazione di sapori e tradizioni culinarie. Il cibo è simbolo di appartenenza, di legame con la propria cultura e, nel momento in cui un individuo si sposta in un altro paese, entra inevitabilmente a contatto con altre tradizioni; si crea così una mescolanza di gusti e sapori che porta alla creazione di nuove ed inconsuete pietanze. Il meticciato culinario diventa quindi specchio del dialogo tra culture.

A seguire degustazione di vini offerta dalla cantina vitivinicola “La Valle”.

 

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Frittata con la bamja

Grecia, patria della bamja. O comunque, senza esagerare, dove la bamja (o okra o gombo) è di casa, sia al ristorante che nei negozi. Peraltro non proprio economica: al mercato centrale di Atene viene venduta a quasi 1,50 € al chilo, non di rado il triplo ad altre verdure.

Dall’isoletta di Lipsi, volendo organizzare una cena veloce per amici nella micro-cucina della camera, ho pensato di preparare una frittata con la bamja, pietanza semplice ma sempre efficace per presentare un ingrediente nuovo e dal sapore particolare. La piastra elettrica (pessima!) non ha permesso un risultato eccezionale (le bamje hanno rischiato di biscottarsi), ma il risultato è stato buono: conviene stufarle piano e se non si vuole eccedere con l’olio aggiungere magari un goccio d’acqua, oltre all’aglio naturalmente; nella povertà della cucina improvvisata ho trovato dell’origano che non ci stava male.

Come al solito ho tolto il cappuccio, ma ho visto nei piatti che ho consumato in giro (pollo alla bamja) che questo viene spesso lasciato. Oltre che una fatica (!) in meno, il cappuccio si cuoce bene e il frutto si mantiene più integro e non rischia di spappolarsi.

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Orrore internazionale: “spaghetti pollo roma”

È fin troppo facile ironizzare sulle versioni extra-italiane dei piatti nazionali, soprattutto le pastasciutte (la mitica “spaghetti bolognese”, che a Bologna si indignano ogni volta; o gli onnipresenti “spaghetti carbonara”), ma non ho potuto sorvolare sull’offerta degli spaghetti pollo roma di un ristorante di Rodi (“Greek & Italian Specialities”), che oltre a un’origine geografica inventata vantano un componente inconsueto nei condimenti della pasta.

Non abbiamo ovviamente cenato lì e, nonostante la curiosità e lo sprezzo del ridicolo, comunque non l’avrei mangiata. Gli ingredienti sono però in grado di stupire per l’arditezza della combinazione: filetto di pollo, aglio e funghi in una salsa di pomodoro e creamy sauce (salsa di varia composizione, una sorta di besciamella arricchita – forse una panna acida balcanica, ma non credo).

Scontate le considerazioni sulla ovvia liceità delle invenzioni di nuovi condimenti e sull’astuzia bottegaia di chiamarli “roma”, rimane il fatto che hanno utilizzato un ingrediente che in Italia non si usa praticamente mai per accompagnare la pasta: il pollo. Capita con le rigaglie (fegatini, etc.), capita con il risotto (“alla sbirraglia” ad esempio), capita con altri volatili come le anatre, ma non ho presente pastasciutte condite con il pollo.

Curiosa mancanza nella patria delle pastasciutte, chissà perché, ma completamente disattesa all’estero, ad esempio nei Balcani dove l’ho vista usare spesso, forse perché meno condizionati dalla nostra tradizione.

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JallaJalla – latte di cocco

Puntata del 23 marzo 2012 di “Pummarola boat”, rubrica bisettimanale dedicata alla cucina meticcia all’interno di JallaJalla su Radio Popolare di Milano, dedicata al latte di cocco. In studio con Nello Avellani.

JallaJalla – latte di cocco – 23 marzo 2012

A seguire intervista aa Adriano, il “Cuoco” della ciclofficina della stecchetta a Milano, che usa il latte di cocco per fare una zuppa

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JallaJalla – Ampalaya

Puntata del 24 febbraio 2012 di “Pummarola boat” (JallaJalla – Radio Popolare) dedicata all’ampalaya.

In studio con Nello Avellani.

 

JallaJalla – ampalaya – 9 marzo 2012

A seguire intervista con Enrico, tra i pochi milanesi a cucinare l’ampalaya.
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Non c’è più lo “zighinì” di una volta

I ristornati tipici, si sa, spesso aggiustano al gusto italiano i piatti tradizionali (magari riservando ai connazionali versioni più aderenti alla tradizione): meno piccanti, meno pesanti, con ingredienti più vicini alle nostre abitudine o più facili da trovare sul mercato italiano. Un adattamento normale, un consueto passo di meticciamento dei sapori.

I ristoranti eritrei a Milano sono stati probabilmente una delle prime aperture in città verso il grande continente: cominciarono ad aprire verso gli anni Ottanta (o almeno io li conosco da quel periodo), sancendo la peculiarità della comunità eritrea milanese verso la ristorazione (quasi assente nelle altre grandi città).

Lo zighinì era per noi una scoperta nuovissima: uno stufato di carne piccante da far piangere (grazie al berberè, miscela di spezie del Corno d’Africa), da mangiare con le mani da un piatto comune, usando come “cucchiaio” il pane morbido e acido (injera) su cui è appoggiato.

Con il tempo anche il tipico piatto ha cominciato a modificarsi, proponendo spesso un “tris” di carne (pollo, manzo, agnello), cui si è aggiunto con il tempo qualche foglia di insalata e qualche fetta di pomodoro crudo (per rinfrescare il palato credo).

L’altra sera in un locale milanese, dall’arredo ammiccante “in stile” (qualsiasi cosa voglia dire), nel piatto è comparsa anche la carne di manzo grigliata, una bistecchina a fettine, la stessa di un qualsiasi pic-nic italico.

Non c’è più lo zighinì di una volta….

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libro: “L’integrazione attraverso i fornelli”

“La cucina gioca un ruolo infraculturale molto importante” scrive Marco Marcocci nella prefazione (”Cosa bolle in una pentola multietnica”) del libretto L’integrazione attraverso i fornelli, curato dall’Associazione di Volontariato Migranti e Banche.

Sempre di più si riconosce il ruolo che la cucina ha come veicolo di incontro tra culture, e non solo come elemento identitario che divide. Questo libretto si distingue dagli altri che spesso vengono prodotti sia per l’attenzione che denuncia verso il valore del meticciato, un passo significativo oltre il semplice scambio e la conoscenza, ma anche per l’accuratezza del suo apparato.

Le ricette sono divise in capitoli per le aree di provenienza, ognuno con un’attenta e interessante introduzione che racconta le dinamiche di insediamento e le caratteristiche sociali dei nuovi italiani.

Anche le ricette stesse sono accurate, spesso differente da quelle consuete che vengono riportate nei libri (ad esempio la Causa peruviana, che mi era piaciuta molto in un ristorante a Milano), con note di approfondimento.

Purtroppo non è distribuito e per averlo bisogna richiederlo direttamente all’Associazione (contributo volontario), ma mi hanno detto che sta avendo un buon successo e perciò conviene affrettarsi!

Di seguito il testo della prefazione che ho scritto per il volume.

Ricette Scorrette

“Questa è la ricetta giusta!”. È una frase che mi lascia sempre perplesso. Rappresenta la rigidità della convinzione che la cucina è una formula esatta, afferma che esiste un sapore “giusto” e uno “sbagliato” e nega che il gusto è assolutamente soggettivo e non istituzionale. Chiunque sia abituato a spignattare sa benissimo che di ogni piatto esistono tante versioni quante sono le persone interpellate, addirittura la stessa pietanza può variare da un giorno all’altro: dipende da cosa si ha nel frigorifero, dal tempo a disposizione, dai gusti propri e dei commensali. Cucinare è un estro del momento e non una pratica ripetitiva, anzi si modifica nel tempo e si arricchisce di nuovi stimoli e nuovi ingredienti.

Quando ero adolescente ad esempio, nella Milano degli anni Settanta, era ugualmente esotico andare al ristorante cinese o alla taverna pugliese. La mamma tornava dal mercato con sapori nuovi: cime di rapa, broccoletti, scamorza affumicata… Per noi, cresciuti a risotti e brasati, erano gusti particolari che ci incuriosivano e ci mostravano, forchetta alla mano, che c’era tutto un mondo da conoscere.

Oggi Milano è cambiata e, mentre le cime di rapa sono diventate una quotidianità e l’olio extravergine di oliva ha ormai quasi sostituito il burro, la società italiana si sta arricchendo ogni giorno di più di nuovi arrivi, nuove persone e nuove culture. Nei negozi e nei mercati, nelle feste e nei ristoranti c’è un mondo di tentazioni gastronomiche, di sapori e ingredienti neanche mai immaginati. Le città sono diventate un mosaico di cucine diverse. Sociologi e studiosi a volte sostengono e scrivono che la cucina è un fattore di identità, che l’uomo è quello che mangia: il migrante, adattatosi a cambiare lingua e abitudini, si affida al cibo per tenere stretto l’ultimo legame con la propria identità culturale; in pratica, vive in Italia ma mangia come fosse nella sua casa di origine.

Qualche volta politici e amministratori, con la scusa di favorire le eccellenze locali e difendere le supposte tradizioni che affondano in lontane e mitiche radici, cercano di delimitare le varie cucine al chiuso delle rispettive comunità perché non si insinuino nella tradizione italiana (“no al kebab! No al cous cous! Sì alla polenta!”).

Ma la realtà per fortuna è molto più complessa e variegata, sopratutto è permeabile agli incontri e anche senza volerlo si inciampa ovunque nei nuovi sapori. La cucina è un magnifico ponte che unisce e non divide, e se cucinare i piatti della propria tradizione è il sistema più spontaneo ed emotivo per entrare in contatto con gli “altri”, è facile imparare i nuovi gusti e farli propri: si intrufolano nella quotidianità, si aggiungono alle solite pietanze e a volte modificano i piatti consueti facendo assumere nuove sfumature.

Da amici e conoscenti ho imparato ad esempio a cucinare con l’okra e il latte di cocco, con i legumi più impensati e le spezie più profumate. Ho visto condire la pizza e la pasta con i sughi più insospettabili, adattare i piatti alle risorse locali e “aggiustarli” con ingredienti prima sconosciuti; oppure accostare con disinvoltura pietanze delle differenti tradizioni.

Per comodità la possiamo chiamare cucina meticcia, il risultato di incroci di tradizioni diverse senza gerarchia, ma in realtà si tratta semplicemente di cucina quotidiana, della normale disponibilità a farsi sedurre dalle cose nuove. Il meticciato stesso è una condizione strettamente connessa allo sviluppo storico di ogni cultura, è una modifica in corso d’opera fatta di incontri, incroci e modifiche: sbaglia chi afferma che la propria tradizione è pura, incontaminata o immutata. Oppure è in malafede. Anche l’identità, termine caro a chi non vuole modificare nulla, è una realtà in movimento.

Il meticciato è un processo che non si può fermare, silenziosamente al lavoro anche nell’Italia di oggi. Però si può aiutare ad esempio aprendo questo libro per leggere le ricette e lasciarsi affascinare dai sapori che suggeriscono.

(p. 10-12)

 

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