“Cina di rapa” – due

Un secondo capitolo per l’esperienza della cima di rapa e la Cina, grazie ad Anna:

Un interessante esito di sincretismo culinario è quanto incontrato in una « trattoria » cinese in zona Sarpi (più precisamente via Giordano Bruno) a Milano. Un’alternativa al tipico contorno di riso bianco, riso alla cantonese (che esiste dappertutto, tranne che in Cina) o riso saltato con germogli è: riso con le cime di rapa. Non si presenta come un risottto, quanto riso (alla cinese – quindi un pò frittino) saltato con cime di rapa (micro-tagliuzzate – senza evidenza di cime/fiori, per lo meno nel mio piatto). Il risultato è apprezzabile, se non altro sulla carta. Le cime a noi familiari colorano il riso, ma ci si muove pur sempre nel sovrano regno della salsa di soia.

Anna Ferro

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“Cina di rapa” – uno

Ho sempre considerato la “cima di rapa” un prodotto tipicamente pugliese, anche se ormai a Milano è entrato nell’uso (consuetudinario?) un po’ di tutti, indipendentemente dalla tradizione culinaria di origine.

Ovviamente i cinesi l’hanno fatta propria e la usano con disinvoltura. Mi capita talvolta di pranzare in una “trattoria” in periferia gestita da cinesi, anonima ed economica, ma con cucina italiana (ma non sempre: una volta ho provato incuriosito gli “involtini di verdura” per scoprire che erano “involtini primavera”).

Ma tale disinvoltura non sempre corrisponde a un felice risultato.

cina di rapa 1

È il caso di questo contorno “Cime di rapa” sinceramente poco appetibile: la verdura è tagliata a pezzettini, gambo e foglie, e saltata con olio (pessimo) e aglio. Nessuna delle qualità della cima è emersa, con un risultato anonimo tendente al cattivo. Esempio infelice di meticciato!

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Pasta broccoli e zenzero

Si tratta di una ricetta che mi aveva raccontato Donata e che avevo pubblicato su Ricette Scorrette (il libro), ma che ho voluto riprovare seguendo le mie più recenti evoluzioni in termini di cucina, cioè usando il wok.

Procedimento semplicissimo: ho fatto saltare lo zenzero a fettine con broccoli zenzero1uno spicchio d’aglio e l’olio extravergine di oliva con i broccoli tagliati a cimette, le più piccole possibili.

Una volta scolata ho aggiunto la pasta (secondo le ormai consolidate manie metà integrale) e fatto saltare qualche minuto.

Risultato buono, che si discosta più del previsto dalla consueta pasta di tradizione pugliese: non solo per il sapore dello zenzero che offre un’alternativa interessante all’acciuga, ma anche per la verdura che rimane croccante. La quantità di spezia dipende dai gusti personali.

broccoli zenzero 2

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Meticciato senza pensieri al ristorante cinese

Qualche sera fa, in un ristorante cinese a Monza, due donne a tavola con due uomini che, era evidente, avrebbero tanto preferito essere in pizzeria ma cercavano di abbozzare senza troppi danni. Una delle due, la più intraprendente e saputella, spiegava con aria sicura i vari piatti sostenendo che girava spesso il mondo per lavoro.

Ordina il sashimi e, per mostrare la propria padronanza, chiede con decisione di avere olio e aceto per poterlo condire. Il cameriere cinese non batte ciglio e porta quanto richiesto: mangiare una pietanza giapponese condita all’italiana in un ristorante cinese è un problema che non lo riguarda.

D0altro canto nel menù, alla voce “primi”, ci sono gli spaghetti di soia “allo scoglio”. Sul solito viluppo di spaghettini traslucidi spiccano le cozze nere.

D’altro canto, se ai clienti piace così…

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La contaminazione (nascosta) con il burro chiarificato

La pubblicità non è certo uno specchio fedele della società, ma spesso offre la possibilità di interessanti e divertenti considerazioni.

Il burro chiarificato si ottiene eliminando caseina e acqua: non è meno grasso ma molto migliore per le fritture perché si abbassa il punto di fumo. È un ingrediente estraneo alla tradizione italiana, tipico della cucina indiana (il ghee) e frequente anche in quella africana: non è difficile farlo in casa, come mi aveva raccontato Micol per un’intervista a JallaJalla, ma è ovviamente più facile acquistare il prodotto industriale – solitamente indiano o anglosassone – ma da ora appunto anche italiano.

Non so se per questa nota marca il burro chiarificato sia stato anche un tentativo di intercettare un pubblico straniero, ma di sicuro questa pubblicità è rivolta unicamente a potenziali acquirenti italiani. E siccome si tratta di un prodotto sostanzialmente nuovo (nessuna menzione al ghee, ovviamente), come in una dimostrazione “per assurdo” lo propone nelle ricette più tradizionali, quelle dove la conservazione è più forte: per il soffritto del risotto ai funghi (“ricco di sapori”), per la pastiera napoletana (“canto di una sirena”), per l’arrosto (“profumo d’immenso”). E probabilmente altre pubblicità che mi sono perso…

Insomma, una contaminazione culturale che non viene dichiarata facendo prevalere il messaggio che un burro più leggero può migliorare la tradizione (“Non a caso i grandi chef usano il burro chiarificato”…). Difficile dire se sta funzionando, se sta entrando nell’uso quotidiano, se riesce a far uscire il burro (quello burro-burro) dall’immaginario ghetto di cibo grasso da evitare. Sarebbe già una grande cosa con tutto questo salutismo ossessivo…

Nello specifico può darsi che sia meglio in alcune preparazioni: Micol sosteneva che nelle cotolette alla milanese funzionasse meglio del burro tradizionale (e dell’olio ovviamente), ma non sono sicuro che nel soffritto dia veramente un valore aggiunto. Quando l’ho usato in cucina facevo fatica a considerarlo come un parente del burro, troppo forte il profumo e troppo differente da quello tradizionale (così “grasso” quello originale, burroso appunto). Di sicuro mai e poi mai mi è servito per mantecare un risotto…

 

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Rambutan

Me lo avevano detto, ma non ero preparato: il profumo di questi frutti è di una dolcezza enorme, così forte da essere quasi nauseante. Il frigorifero ne era gonfio.

Il rambutan è un frutto tropicale originario della Malaysia ma di cui vanno matti anche i filippini che me ne avevano parlato con aria nostalgica, anche se quelli che ho acquistato sono importati dalla Thailandia. Prosegue questo piccolo percorso verso i tanti esempi dei prodotti vegetali del mondo a noi ignoti, ma che grazie ai migranti potrebbero diventare un giorno di uso comune.

L’aspetto è decisamente inconsueto per i nostri standard: i frutti sono piccoli e di forma ovale, con una buccia rossastra e lunghi peli di colore verde. Rispetto all’intenso profumo la polpa delude un po’ le aspettative di enorme dolcezza perché è acidula e leggermente fibrosa, con un grosso seme all’interno. Il sapore è vicino a quello del lychee e pare contenga molta vitamina C.

Ho letto che si può consumare in macedonia o strizzato in tè molto freddo e zuccherato, ma ce li siamo gustati uno a uno dopo il pasto anche perché il costo è piuttosto alto, oltre 13,00 € al kg. Ma ne valeva la pena, se non altro per togliermi la curiosità per questa sognante nostalgia.

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Il limoncello: un prodotto francamente internazionalista

“Vuole ancora qualcosa? Un caffè?” “No, grazie” “Neanche un limoncello?”.

Quando a chiedermelo è un ristoratore cinese dopo una cena con bacchette e pietanze orientali, ogni volta rimango un po’ basito. Però ormai è ora di abituarsi.

Una volta, neanche tanto tempo fa, diciamo una ventina d’anni, il limoncello era ignoto al di fuori dell’area campana con l’esclusione di qualche immigrato nostalgico. Quando con l’amico Gianni andai a Napoli e ci proposero questo liquore al posto del grappino postprandiale, lo provammo come se fosse una specialità esotica.

Passata la foga della scoperta della produzione casalinga che aveva contagiato credo un po’ tutti, ma sempre più di dieci anni fa, ora questo liquore è diventato un vero campione di internazionalismo: ha ormai perso la sua vocazione campana e a Milano lo si trova praticamente in ogni esercizio di ristorazione, dalla trattoria “tradizionale” fuori porta fino ad arrivare ai cosiddetti ristoranti etnici. E non solo dai cinesi, ma anche nei locali peruviani ed eritrei, per rimanere nell’esperienza diretta, e spesso con quel fare un po’ ammiccante che presuppone, per il “goccino” finale, una condivisione di gusti.

Nessuna nostalgia e nessuna contrarietà – mica mi obbligano a berlo – ma rimane lo stupore per questo successo (Perché è buono? Fa digerire? È meno impegnativo del distillato classico?) e un pizzico di tristezza, perché a trionfare è ovviamente la produzione industriale, che appiattisce i gusti e cancella i valori del sapore.

In attesa sentirmi chiedere a fine pasto se voglio un limoncello anche in francese, tedesco, spagnolo, rumeno…

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libri: “Extreme cuisine”. Una manuale colonialista

È notizia di qualche giorno fa che in Florida il vincitore di una gara su chi mangiava più scarafaggi e vermi vivi sia morto subito dopo, per cause che l’autopsia dovrà svelare (vd.).

A parte il dramma di un decesso e l’insensatezza di una gara a chi mangia di più, è ovviamente il cibo a costituire la notizia: mangiare vermi e insetti fa un po’ schifo a noi occidentali, soprattutto se vivi!

È una notizia che mi fa riprendere in mano un libretto edito da Lonely Planet acquistato ad Atene quest’estate (in maniera assolutamente casuale): Extreme cuisine. Exotic tastes from around the world, a cura di tale Eddie Lin. In copertina è ritratta una giovane donna orientale mentre mangia con le bacchette rosse (sia anche comunista?) una insettaccio multizampe.

Si tratta di uno scarno librettino dalla grafica banale e da fotografie di qualità scadente, dove sono elencati alimenti o piatti da tutto il mondo che, secondo l’autore, si meritano l’appellativo di nasty, disgustosi: il canguro australiano, il pesce palla giapponese, l’ampalaya africana, la tarantola cambogiana, il costosissimo Luwak indonesiano, ossia i chicchi di caffè digeriti e defecati dallo zibetto (il caffè più costoso al mondo), e via dicendo in un elenco lungo e compiaciuto. Per l’Italia ci sono le creste di gallo e le mammelle di bovino, oltre al formaggio con i vermi indicato come sardo.

Si offre come innocente volumetto didascalico che illustra le abitudini altrui, ma in realtà legge tutto attraverso gli occhi (schifati in maniera compiaciuta) di uno statunitense. Sembra una guida coloniale d’altri tempi, dove si indugia sulle altrui abitudini alimentari derubricandole da rispettabili tradizioni (anche se non necessariamente condivisibili: i gusti sono personali e frutto di cultura) a schifezze da cui stare attenti.

In fin dei conti da sempre il barbaro e lo straniero sono coloro che mangiano cose “immangiabili”, non umane appunto. E anche adesso, visto l’atteggiamento di molti verso i migranti, non è così differente.

 

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JallaJalla – salsa di soia

Puntata del 27 aprile 2012 di “Pummarola boat”, rubrica bisettimanale dedicata alla cucina meticcia all’interno di JallaJalla su Radio Popolare di Milano, dedicata agli anacardi. In studio con Nello Avellani. Quest’anno la trasmizzione non viene ripresa, pazienza, però continuo a mettere le puntate di cui sono in possesso.

JallaJalla – salsa di soia – 27 aprile 2012

A seguire intervista a Marco “Cannetta”.

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Durian, ovvero “il re dei frutti”

La prima volta che ho avuto a che fare con il durian è stato qualche anno quando Cinzia, di ritorno da Singapore, mi portò alcuni generi alimentari tra una specie di crema solida all’interno di un cilindro in plastica leggera, una sorta di salsicciotto marroncino. Le scritte erano in un alfabeto per me incomprensibile, impossibile capire cosa fosse. Non sapevo cosa farne, il sapore non lo ricordo ma l’odore sì: cattivo, molto cattivo, tanto da pensare fosse andato a male.

Ritrovo lo stesso salsicciotto a Milano, nel più grande negozio internazionale, scopro che si tratta si una versione confezionata di durian e scopro anche che è in vendita anche fresco: un frutto grosso e tondeggiante, con una scorza spessa ricoperta di grandi spine, costoso tanto da sconsigliare l’acquisto per “curiosità”.

Il durian è pregiatissimo in India, Portorico e Australia ma anche Cina (“il re dei frutti”), leggo che al suo interno ha una polpa cremosa e giallina dal sapore molto dolce. Pare che tanto buon sapore sia però accompagnato da un odore veramente acre, fetente (le definizioni sono molteplici: putrefazioni, feci animali, sudore stantio, etc.), tanto che a Singapore è vietato portalo nei mezzi di trasporto pubblici.

Un amico più curioso di me lo ha acquistato e provato, senza alcun entusiasmo nonostante le aspettative e racconta tutto sul suo blog.

Difficile ipotizzare al momento una sua diffusione nella cucina italiana…

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