Registrazione della trasmissione di venerdì 27 novembre all’interno di JallaJalla a Radio Popolare di Milano.
In studio con Paolo Maggioni
Registrazione della trasmissione di venerdì 27 novembre all’interno di JallaJalla a Radio Popolare di Milano.
In studio con Paolo Maggioni
Ricevo da Marco Bonello, che qui saluto e ringrazio, una ricetta. Ma visto che si trova come commento a un articolo di un paio di mesi fa ("Cucina meticcia a Radio Popolare" 8/10/2009) e rischia di non essere notata la allego qui sotto. La proverò quanto prima!
Caro Andrea,
Dopo aver ampiamente attinto alla tua
conoscenza (il risotto allo zenzero è divenuto un appuntamento
quasi settimanale, il pollo con il latte di cocco ed il peperoncino
mi è valso uno dei rari complimenti di mia moglie!), ho
ritenuto doveroso contribuire con una mia ricetta meticcia, che
pratico da trent’anni, quando, da bravo renudista mi ero avvicinato
alla macrobiotica e l’avevo già contaminata.
Il miglio è
un cereale che semplicemente adoro, che ha un sacco di virtù ,
diffusissimo in Africa e mi chiedo quali scellerate logiche di
mercato lo confinino tuttora agli ambienti un po’ snob (ai miei
tempi si sarebbe detto radical-chic) della cucina
macrobiotica.
Comunque, la preparazione è semplice: si
prende una cipolla grossa o due cipolle medie, la si fa dorare con un
po’ di olio (io metto anche abbondante peperoncino de gustibus non
dispuntandum!) in un a pentola a pressione, poi si aggiunge il miglio
e lo si lascia tostare un po’, rimestando con un cucchiaio di
legno. Si aggiungono poi tre parti di acqua per una di miglio, si
chiude la pentola a pressione. Quando la pentola è in
pressione, si calcolano 20 minuti, si fa uscire il vapore e si apre
la pentola.
A parte si affettano (una volta lo facevo a mano, da
quando mi sono offerto un robot da cucina affetto a julienne, e la
cottura ne guadagna) carote e zucchine. Per una tazza di miglio io
impiego un chilo circa di zucchine, e la metà di carote, credo
vada un po’ a gusti ed al tipo di verdure che siete in grado di
trovare. Metto il tutto in una pentola possibilmente con fondo
anti-aderente, un filo di olio di oliva (io uso quello di “Libera”:
un po’ di militanza non guasta mai ed è comunque ottimo),
peperoncino anche qui (quattro anni di Tunisia hanno lasciato il
segno!) e salsa di soya invece del sale (concessione alla
macrobiotica, poi dicono faccia meglio e comunque si scioglie in modo
più uniforme), e faccio cuocere a fuoco lentissimo senza
aggiunger acqua: con le verdure che trovo al supermercato vicino a
casa, comunque dopo un po’ ho la sensazione di stare facendo un
minestrone, se qualcuno è più fortunato di me forse ne
trova anche di meno acquose, e può essere necessario
aggiungere un filo d’acqua durante la cottura, ma senza esagerare.
A cottura ultimata, si prende una pirofila, si mette uno strato di
miglio, poi le verdure, poi si aggiunge una mozzarella (vanno bene
quelle da pochi soldi che vendono nei supermercati per la pizza: 350
grammi circa), si ricopre il tutto con uno strato di miglio;
facoltativamente si dà una spolverata di parmigiano o anche di
mix grattugiato che si trova nei supermercati e si mette in forno a
220° per mezz’ora.
Il mio amico Gigi, che è un vecchio
piemontese restio a tutto quello che non siano tajarin e bagna cauda,
di solito chiede il bis… provare per credere.
Saluti
meticci
Sull’onda dell’entusiasmo
per l’avocado, Chiara mi racconta queste due ricette.
Tornata
dal Messico, nel lontano 1994, ho subito sentito la mancanza del
guacamole che quotidianamente era presente in qualsiasi piatto
io ordinassi. Pertanto,
non ricordo bene come, se per “gioco o per amore”… ho creato
questa ricetta per un ottimo sugo con cui condire la pasta.
Si
prende un avocado maturo lo si schiaccia per benino con una
forchetta, si aggiunge una scatola di pelati anch’essi ben
schiacciati con forchetta, si aggiunge sale ed olio a crudo, olio
buono. Ehhh…. è fatta .
È
una ricetta estiva, gustosa con cui condire la vostra pasta
preferita, io uso gli spaghetti, non perché i miei preferiti,
ma perché “sono la morte sua”. Tempo di preparazione 10
minuti, davvero facile.Provare
per credere.
Questa
è un’altra ricetta che è molto che non faccio perché
mi piace meno, ma che forse è ancora più semplice.
Si
schiaccia sempre un avocado ben maturo con la forchetta, si aggiunge
tantissimo grana grattugiato (non so esattamente le dosi), sale, olio
ed un pizzico di pepe. Eh…. pronti… tutto
squisitamente a crudo lo si aggiunge alla vostra pasta preferita.
Le
dosi sono a piacere, o meglio q.b. (quanto basta).
Buon
appetito!
Chiara Guazzoni,
chiaragarch@gmail.com
Ecco un’occasione dove la cucina, intesa come operazione meticcia e
di incontro, esce dall’ambito dei fornelli e viene affrontato sulla
scena teatrale.
Intendiamoci, Qualcosa di nuovo. Una
ricetta per l’integrazione, è uno spettacolo bello prima
ancora che interessante (per chi si interessa di cucina), divertente
e ben recitato. Non sono un esperto, posso solo dire che mi è
piaciuto, e che la cucina esce come occasione dell’incontro tra due
donne diverse per pelle e provenienza: Lucia e Yelè, costrette
a lavorare gomito a gomito nella cucina di un ristorante della
provincia lombarda.
Ma, trattandosi di teatro-cucina,
non ci si ferma alla parola e gli spettatori vengono invitati “alla
degustazione finale del piatto creato dal cuoco Davide Oldani, patron
della trattoria “D’O la tradizione in cucina” di Cornaredo, che
con il suo contrasto equilibrato ha creato una vera e propria
filosofia della cucina. Il contrasto, oltre che nel piatto, c’è
anche nella nostra storia, più o meno equilibrato, ma una cosa
è certa: l’unione di sapori diversi e tra loro contrastanti
crea una ricetta estremamente gustosa, sulla tavola e sul
palcoscenico!” (dal sito)
Il piatto l’ho assaggiato anch’io: se
non è corretto raccontare come si inserisce all’interno dello
spettacolo, non rovino nulla descrivendolo come un piatto di riso
mantecato con il burro, bianco, circondato da una salsa scura di
marsala, con briciole di pane tostato in cima e una spruzzata di
pepe nero. Un piatto meticcio per contrasto cromatico, realizzato con
alimenti di consolidata tradizione italiana ma tutti lontani di
origine. Buono.
Lo spettacolo è in giro per
l’Italia, potete trovare le date sul sito:
http://www.qualcosadinuovo.org/
Se invece volete ascoltare la
presentazione a Radio Popolare – JallaJalla con Paolo Maggioni:
http://mir.it/servizi/radiopopolare/blogs/jalla/?p=361
Registrazione della trasmissione di venerdì 6 novembre all’interno di JallaJalla a Radio Popolare di Milano.
A volte il meticciato in cucina succede
dove non te lo aspetti.
L’altro giorno, a pranzo, mi passano la
mostarda da mangiare con il bollito e, tra i vari frutti, scopro che
c’è un kiwi. Nella mostarda non l’avevo mai visto.
Io adoro la mostarda, soprattutto
quella con frutta intera secondo la tradizione lombarda, ma apprezzo
anche quella veneta con la frutta grattugiata. È una conserva
di origine medievale tipica della pianura padana per consumare anche
d’inverno i frutti estivi, e ha ovviamente sempre usato i prodotti di
origine locale: clementine, fichi, pere, ciliege, albicocche, mele e
uva, per citare a memoria quello che ricordo mentre scrivo.
Probabilmente è sciocco stupirsi
per la presenza del kiwi, che ormai è diventato una normale consuetudine
dei nostri mercati e solo i più anziani di noi si ricordano di
quando era un frutto esotico. È originario della
Cina (Mihoutao),
importato in Nuova Zelanda agli inizi del XX secolo, e poi coltivato
in tutto il mondo; l’Italia pare sia il massimo produttore mondiale.
Probabilmente è così consueto che è sembrato un
normale passaggio inserirlo in una conserva così radicata sul
territorio e conservatrice nei suoi gusti.
Una breve ricerca sul web mi fa
scoprire che vengono prodotte mostarde solo di kiwi. Sugli scaffali
di un supermercato trovo poi un barattolo di una famosa ditta di
Cremona dove, a fianco della solita frutta (pesche, clementine, pere,
ciliege), compaiono anche kiwi e papaya. Sull’etichetta la semplice
dizione “frutta senza nocciolo”.
Insomma, un meticciato culinario
industriale senza alcuna dichiarazione, senza alcuna bandiera.
Probabilmente se non si legge l’etichetta non ci si accorge. È
probabile che l’inserimento di kiwi e di papaya non risponda ad
alcuna scelta gastronomica precisa e neppure “ideologica”:
avrebbero probabilmente scritto della presenza di questi frutti nella
mostarda. Forse semplicemente costano meno di quelli nostrani, oppure
rendono meglio. Sarebbe meglio definirlo un meticciato strisciante
piuttosto che convinto.
Per inciso, il kiwi era buono.
PS Non so se c’entra con il meticciato,
o se faccio un discorso da nostalgico, ma ho l’impressione che una
volta la mostarda fosse più piccante (quando pizzicava nel
naso). Non so se è perché la producono più dolce
per aumentare le fette di mercato (?), oppure se sono io che nel
tempo mi sono abituato al piccante. Mah…
Si presenta a casa mia a ora
dell’aperitivo, attrezzato con gli ingredienti. Marco mi aveva parlato di
questa sua salsa e, come dargli torto, ha ritenuto che assaggiare sia
meglio di raccontare. Purtroppo su un blog (e un libro) i sapori si
raccontano e allora dico che l’avocado, frutto carnoso e con un
contenuto di grassi superiore alla media, viene completato benissimo
dai formaggi che lui usa per arrivare a una salsa da spalmare sul
pane. Non ho mai avuto particolare simpatia per questo frutto, non so
perché, ma devo dire che il risultato è veramente
gradevole.
Marco all’opera
Marco aveva assaggiato una salsa simile
a Madrid, dove il formaggio era il (francese) Rochefort (potenza
della globalizzazione o meticciato strisciante?). Fatto sta che, non
convinto, ci ha provato con il nostrano gorgonzola ingentilito dalla
crescenza.
Si
prende un’avocado, con una forchetta si schiaccia la polpa sino ad
ottenerne una crema. In egual volume ripetto alla crema ottenuta si
mischiano gorgonzola 30% e crescenza 70%.
In
realtà mi conferma che le proporzioni variano di volta in
volta, come è giusto che sia, perciò il consiglio è
di assaggiare mentre si fa, tenendo ovviamente presente che il
protagonismo del gorgonzola va tenuto sotto controllo. Però
anche Cinzia, a cui non piacciono i formaggi, ha mangiato di gusto.
Un
altro vantaggio di questa salsa, sostiene Marco, è il tempo di
preparazione: cinque minuti.
PS venerdì prossimo, 27 novembre, presenteremo la ricetta a JallaJalla
Registrazione della trasmissione di venerdì 23 ottobre all’interno di JallaJalla a Radio Popolare di Milano.
In studio con Paolo Maggioni
La ricetta è di Enrico Blasi e
me l’ha raccontata la sera davanti a un bicchierino di nocino di sua
produzione. Enrico mi aveva invitato a Frasso Sabino alla
manifestazione Frasso in ottobre (vd Presentazioni del
12 ottobre 2009) per presentare il libro e a quell’ora eravamo nella
cucina di casa sua, a Monteleone Sabino, dove ha sede anche la sua
associazione, OZU (http://www.ozu.it)
Questa versione della pasta e fagioli è
legata in prima battuta, dice lui, al bisogno di adeguarsi a un
regime alimentare meno calorico (perciò niente guanciale e
niente cotica e al loro posto i pomodorini secchi) e poi alla
fascinazione verso i prodotti contadini (l’”aglione”: un trito di
aglio, rosmarino e sale); non da ultimo la sua curiosità verso
il mondo, dovuta forse anche al fatto che i primi dodici anni di vita
li ha fatti in Brasile (ecco il cacao amaro).
Il piatto che ne esce è assai
saporito e il cacao non lascia alcuna traccia dolce, ma un sottofondo
che ammorbidisce e arrotonda i sapori. Lui usa di preferenza i
fagioli rossi o neri, io ho provato con quest’ultimi e, in mancanza
di “aglione”, direttamente rosmarino e aglio. Il cacao è
quello amaro equo solidale.
Per due persone
1 carota, mezza
cipolla, 2 pomodorini secchi, 100 g di fagioli neri, 2 cucchiaini di
cacao amaro, peperoncino, aglio, rosmarino e olio
Tritate carota,
cipolla, pomodorini, aglio, rosmarino e peperoncino in olio, poi
aggiungete i fagioli che avrete tenuto a bagno per una dozzina di
ore. Quasi a fine cottura aggiungete il cacao, salate solo alla fine
(sennò i fagioli diventano duri).
La registrazione della chiacchiera con
Enrico è stata trasmessa a JallaJalla di RadioPopolare Milano,
all’interno del magazine condotto da Paolo Maggioni
Lo trovate su questo blog nella
cartella di JallaJalla
La manifestazione Golosaria che si
tiene a Milano il 7-8-9 di quest’anno pone come tema portante “La
cucina dell’integrazione”.
Cosa vuol dire? Piatti cucine straniere
realizzate con alimenti 100% italiani. Ad esempio il sushi realizzato
con tonno di Corsa di Carloforte o il cous cous cucinato con farina di
semola dell’Emilia Romagna oppure il kebab preparato con carni
piemontesi.
Scherziamo? Tutto qui? Ogni massaia che
si rispetti utilizza per cucinare quello che trova: alla faccia della
globalizzazione il più delle volte, specialmente chi ha meno
soldi, non compra prodotti d’importazione ma quelli a portata di mano
(che a volta, ma non sempre, costano meno).
Sarebbe questa l’integrazione? Far
utilizzare solo prodotti italiani per sdoganare i sapori altrui?
Basta che lo straniero compri “italiano” per essere più
integrato?
Mah…
PS Però forse sono sinceri in
realtà: il termine “integrazione” non vuol dire incontro o
scambio, arricchimento, bensì inglobamento e omologazione.
Sicché…