“Vuole ancora qualcosa? Un caffè?” “No, grazie” “Neanche un limoncello?”.
Quando a chiedermelo è un ristoratore cinese dopo una cena con bacchette e pietanze orientali, ogni volta rimango un po’ basito. Però ormai è ora di abituarsi.
Una volta, neanche tanto tempo fa, diciamo una ventina d’anni, il limoncello era ignoto al di fuori dell’area campana con l’esclusione di qualche immigrato nostalgico. Quando con l’amico Gianni andai a Napoli e ci proposero questo liquore al posto del grappino postprandiale, lo provammo come se fosse una specialità esotica.
Passata la foga della scoperta della produzione casalinga che aveva contagiato credo un po’ tutti, ma sempre più di dieci anni fa, ora questo liquore è diventato un vero campione di internazionalismo: ha ormai perso la sua vocazione campana e a Milano lo si trova praticamente in ogni esercizio di ristorazione, dalla trattoria “tradizionale” fuori porta fino ad arrivare ai cosiddetti ristoranti etnici. E non solo dai cinesi, ma anche nei locali peruviani ed eritrei, per rimanere nell’esperienza diretta, e spesso con quel fare un po’ ammiccante che presuppone, per il “goccino” finale, una condivisione di gusti.
Nessuna nostalgia e nessuna contrarietà – mica mi obbligano a berlo – ma rimane lo stupore per questo successo (Perché è buono? Fa digerire? È meno impegnativo del distillato classico?) e un pizzico di tristezza, perché a trionfare è ovviamente la produzione industriale, che appiattisce i gusti e cancella i valori del sapore.
In attesa sentirmi chiedere a fine pasto se voglio un limoncello anche in francese, tedesco, spagnolo, rumeno…