Se mi avessero proposto di pubblicare una ricetta (scorretta) di Polenta e coda alla vaccinara, mi sarei divertito. Niente di che, intendiamoci, una propostina di basso impegno, però burlona.
E invece l’ormai mediaticamente famoso pranzo di riconciliazione tra il Bossi e i romani, già un po’ artificioso di suo, è stato condito proprio con l’esibizione di un incontro culinario, quello tra Polenta appunto, cioè il nord, e la Coda alla vaccinara (ma anche la Pajata – le cronache non sono precisissime…), per la capitale.
Questo pranzo cialtrone, nella sua volontà di armonia artificiosa e forzata, non è stato un vero incontro ma una contrapposizione, dove il cibo era il simbolo di appartenenza e rappresentava il nemico con cui arrivare a patti. E che nessuno di loro aveva mai mangiato prima, avrebbero potuto giurare forse.
La Lega poi di simboli se intende, ha costruito l’immaginario di una Padania (inesistente) proprio su miti inventati e la scelta della polenta, di basso profilo culinario rispetto ad altre possibilità a voler essere pignoli, conferma la superficialità della sua cultura e riprende lucidamente proprio una delle bandiere più sciocche delle sue campagne politiche: “polenta sì, couscous no”.
Quanto a Roma, non si scherza su tutto l’armamentario della “romanità” piaciona e popolana, cucina compresa, con tanto di rivolta dei ristoratori: «Ma che cos’è ‘sto teatrino? Venite a tavola da noi, altro che polenta e sugo romano, la vera coda alla vaccinara ve la prepariamo noi».
La scelta poi di farne un pranzo in piazza, teoricamente aperto al popolo, rappresenta una delle forme più arcaiche di esibizione del potere, dove i potenti magnano e il popolino ammira. Salvo poi vedere scene patetiche come la Polverini che imbocca Bossi con i rigatoni e Alemanno che mescola la polenta.
Chissà se nell’intimità del loro tinello, una volta dismessi gli abiti del potere, abbiano confessato al consorte o alla escort di turno che il cibo del nemico, poi, non era così male.