“Magnar dei bechi” all’araba.

L’ultima volta che ho visto il Volpe è stata a una tavolata, a ferragosto, a casa di
Grazia e Leo, vicino ad Asti. Due giorni, tanto vino e la magnifica cucina di Leo. Grandi momenti.

“Magnar dei bechi” (piatto del cornuto) all’araba.
A Venezia si definiscono “magnar dei bechi” quei piatti di veloce preparazione che le mogli, avendo in altro modo e forse meglio trascorso il pomeriggio, somministrano ai mariti affamati: la pasta al burro ne è l’esempio classico. La variante meticcia che personalmente mi preparo quando la voglia e il tempo di trattarmi meglio vengono meno è la pasta allo
za’tar palestinese.
In un piatto fondo preparare un abbondante miscela di olio extravergine di oliva e
za’tar. A pasta cotta (consigliabile un formato corto) versarla nel piatto suddetto e mescolare col necessario vigore. Se gradito, aggiungere dell’altro za’tar. Pressochè obbligatorio del pane per raccogliere quanto nevitabilmente resta sul fondo del piatto.
Di minor soddisfazione la variante indiana del “magnar dei bechi”, la
pasta al burro e curcuma.
Buon appetito.

Sergio Volpe,
sergio_volpe@fastwebnet.it

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presentazione radio 31-5-09

Domenica 31 maggio 2009, ore 9.30/10.30 nel corso del programma "L’altro lato" su Rai 2, condotto da Federico Taddia, presentazione di

Andrea Perin, "Ricette scorrette. Racconti e piatti di cucina meticcia", Elèuthera

http://www.radio.rai.it/radio2/laltrolato/

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Zenzero ovvero Zingiber

Sbagliano a prendersela con il
kebab: il vero nemico, l’infiltrato, l’agente mutogeno che sta
cambiando la cucina italiana è lo zenzero.

Fino a pochi anni fa, una ventina al
massimo, non lo usava praticamente nessuno, giaceva nelle drogherie e
nei supermercati nel suo barattolino triste, in polvere. Ora lo trovi
fresco ovunque, e molti cominciano a usarlo con disinvoltura e
curiosità. In questo blog ad esempio è stato infilato
nel risotto e nella polenta (due piatti identitari del nord!), mentre
in “Ricette scorrette” Donata, pugliese, lo utilizza nella pasta
con i broccoli.

Lo zenzero viene consumato come radice
o rizoma ed è originario del sudest asiatico, ma più
che una novità nella cucina italiana è un
ritorno.

 

Già in età romana lo
zingiber era presente nella cucina: il nome stesso si deve
secondo la maggior parte degli studiosi dall’antica radice Tamil
“ingiver”, che arrivò a greci e romani attraverso la
mediazione dei mercanti arabi. Dello zenzero ne parla Plinio il
Vecchio nel I secolo a.C. e lo troviamo in molte ricette di Apicio
dal suo “De re coquinaria”.

Se del periodo altomedievale sappiamo
poco (ma le spezie verosimilmente continuarono a essere importate) lo
zenzero torna a essere una presenza importante nella cucina basso e
tardo medievale italiana ed europea insieme alle altre spezie
(zafferano, pepe, cannella, noce moscata, chiodi di garofano, etc.)
nel costruire il gusto della classe dominante.

È presente in quasi tutte le
pietanze, anche in molti piatti che possiamo senza fatica riconoscere
come gli “antenati” di moderne ricette. Come ad esempio in questa
“Salsa verde” proposta da Maestro Martino nel suo “Libro de
arte coquinaria”, un’opera manoscritta composta alla fine del
Quattrocento e che costituì una tappa fondamentale nella
storia della gastronomia italiana, all’epoca l’eccellenza europea.

Piglia
petrosillo et sarpillo et un pocha de bieda con qualche altra bona
herbicina, con un pocho di pepe, et zenzevero, et sale. Et pista
inseme molto bene ogni cosa distemperando con bono aceto forte, et
passarailo per la stamegnia. Et se voi che senta dell’aglio vi
poterai mettere a pistare inseme con le sopra ditte cose un pocho di
fronde di aglietti. Et questo secundo il gusto a chi piace.

Si tratta di una salsa per accompagnare
le carni, nel cui solco possiamo trovare ad esempio anche il famoso
“bagnet” piemontese, ma che grazie allo zenzero acquisisce un
sapore particolare. La spezia era ovviamente in polvere ma, anche se
meno fedele, converrebbe usare quello fresco grattugiato; prezzemolo
e timo (serpillo) per le erbette, o altre a piacere, e se non trovate
le "fronde” di aglio usate pure uno spicchio.

Nel caso ce ne fosse ancora bisogno, va
subito smentita l’a
ffermazione
che l’uso delle spezie, tanto nell’antichità quanto nei luoghi
di origine, avesse la funzione di coprire sapori e odori sgradevoli
che una cattiva conservazione degli alimenti inevitabilmente si
portava dietro. È vero al contrario che proprio di gusti si
trattava, basti pensare che solitamente erano molto più
costose del cibo che avrebbero dovuto conservare (non vi sarebbe
stata alcuna convenienza), ma è altrettanto dimostrato che in
effetti le spezie, così come molti degli aromi usati nelle
cotture, hanno capacità mediche. Nel medioevo infatti i medici
sostenevano che il “calore” delle spezie favorisse la digestione
dei cibi. Erano ovviamente prodotti costosissimi, di lusso, il cui
utilizzo era qualificante come classe dominante (in questo non è
cambiato nulla, basti pensare al ruolo oggi del caviale ad esempio).

L’uso
delle spezie cominciò a declinare a partire del Seicento in
seguito a vari fattori, come il loro arrivo in grandi quantità
e l’abbassamento dei costi che le rese meno esclusive, ma
soprattutto grazie alla nascita di nuovi gusti legati al crescente
prestigio della cucina francese, che le aveva bandite dalle proprie
ricette. Ormai nel Settecento erano sparite dai ricettari nobili e ne
rimanevano solo alcune in qualche cucina regionale italiana, come i
chiodi di garofano, la noce moscata e il pepe; praticamente nullo lo
zenzero nella cucina italiana.

Maestro Martino, Libro de arte
coquinaria
, a cura di Luigi Ballerini e Jeremy Parzen, Guido
Tommasi Editore, Milano 2001

Massimo Montanari, La fame e
l’abbondanza
, Laterza, Bari 1993

 

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presentazione 30-5-09

Asti, sabato 30 maggio 2009, ore 19.30, Corte Sconta

Nell’ambito del festival "A sud di nessun nord. Appunti di viaggio in terre incognite", presentazione/aperitivo di Andrea Perin, "Ricette scorrette. Racconti e piatti di cucina meticcia", Elèuthera 2009

http://www.nomadiestanziali.it/programma

 

 

 

 

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presentazione 28-5-09

 

giovedì 28 maggio, ore 21.30

seconda presentazione di Andrea Perin, "RICETTE SCORRETTE. Racconti e ricette di cucina meticcia", Elèuthera. Con Giulia Del Bene e Michele Gargiulo, sarà presente anche Delma Pompeo e altri protagonisti.

Ci saranno assaggi di piatti presenti nel libro


presso il circolo arci La Scighera (a casa insomma), Milano via Candiani 131

(ingresso con tessera arci)

forchetta e bastoncini

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Spaghettoni alla cinese

Io e Pietro ci siamo conosciuti in un magazzino di museo, ognuno intento nel suo lavoro. Lui è uno studioso di arte cinese e giapponese ma non di quelli persi nei libri e nella polvere del passato: ha vissuto a lungo in ambedue i paesi e conosce bene la vita quotidiana.Per questo piatto non ha pescato in maniera filologica dalle due cucine,
perché la sua è una ricetta che si potrebbe definire scorretta per “ammirazione”.

A me questa ricetta piace un mondo. Per un certo periodo siamo andati avanti tutte le settimane, per più giorni, con questo piatto.
Dopo un po’ però abbiamo avuto l’effetto
rebound per eccesso di salsa di soia e ora ci limitiamo a farlo una volta ogni tanto.

Non so se sia una ricetta “scorretta”. È a tutti gli effetti una ricetta della mamma (italianissima). Ma l’idea le è venuta andando al ristorante cinese. L’intento credo fosse quello di emulare i sapori di qualche piatto che l’aveva soddisfatta particolarmente. Di base c’è quindi l’idea di ricreare un piatto che esiste davvero, ma nei fatti, di cinese non c’è quasi nulla. Solo la soia, e un po’ il fatto di mettere delle verdure sminuzzate a saltare con gli spaghetti. La soia dà certamente un tocco estremo orientale, e anche il sapore, di conseguenza, riporta a quei posti. Anche l’uso dello wok richiama un po’ la ritualità dei venditori di noodle che ti preparano il piatto
per la strada sul loro carretto. Non vorrei invece che sia inteso
come piatto
fusion. Sarebbe troppo fighetto.

L’olio è d’oliva, gli ingredienti tutti italiani, tranne la salsa di
soia, che però ormai è ovunque e quindi non vale… Insomma, è un piatto cinese per “ammirazione”. Della bontà veramente schietta, immediata e universale di certi piatti del Paese di mezzo.

(per quattro persone)

350 grammi di spaghetti grossi (i più grossi possibile), 4 zucchine, 2 carote di medie dimensioni, 1 porro piccolo, 2 cucchiai di olio d’oliva, 6 cucchiai di salsa di soia

Tagliate il porro a tondellini fini; pulite le zucchine togliendone la
buccia/pelle con un pela-patate in modo da lasciare un po’ di verde
in superficie, poi tagliatele per il lungo alla
julienne cercando di
ottenere delle listarelle non troppo fini (la parte centrale della zucchina non dev’essere utilizzata; pulite poi le carote per bene
dalla buccia/pelle e fatele anch’esse alla
julienne. In uno wok o in una padella fonda ammorbidide per tre minuti circa il porro nell’olio bollente. Aggiungete poi carote e zucchine e saltate il tutto per circa due minuti.Quando avete scolato la pasta, versatela subito nello wok e saltatela per pocofacendo evaporare un po’ della salsa di soia che avrete aggiunto nello stesso momento.

Impiattate (che brutto termine. Ma l’ho sentito in tivù in quei programmi che fanno a mezzogiorno. Sembra lo usino tutti. Io non l’avevo mai sentito prima. Mia mamma non mi ha mai impiattato la pasta. A casa mia si usa mettere o versare nel piatto. Ma forse sono io che non ho capito il vero significato del termine).

Pietro Amadini, amadpi@tiscali.it


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presentazione 16-5-09

 

prima presentazione di

Andrea Perin, "RICETTE SCORRETTE. Racconti e piatti di cucina meticcia", Elèuthera

Casa delle Culture del Mondo, Milano, ore 19.00

Presenta Silvia Giacomini, oltre all’autore saranno presenti Ayame Suzuki, Jimmy Rivera e Winty Rezane. Cucina arci Zaghridì, suona la Banda delle Donne (Inbaliadellamaria)

 

presentazion 16-5-09

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Polenta e zenzero

Un
altro piccolo colpo all’identità padana?

Ma
no, davvero. È solo una questione di gusti. Anzi,
probabilmente questa polenta è più rispettosa della
tradizione che non la triste fettina di accompagnamento alla carne
che ti scodellano in qualche trattoria o sagra turistica.

Per
secoli la puls, una minestra densa di cereali (miglio, orzo,
…) insieme ad altri ingredienti (formaggi, burro, verdure) è
stata l’alimento base dei contadini. Fu solo nel Settecento con
l’imposizione del mais ai contadini da parte dei proprietari terrieri
(costava meno di altre granaglie), e con il progressivo impoverimento
dei lavoratori, che la polenta diventò la fetta gialla a cui
siamo abituati. E che, spesso l’unico alimento, portò
generazioni di contadini a morire di pellagra.

Polenta
e brasato, insomma, è in qualche maniera un’invenzione
dell’opulenza moderna, non una vera tradizione popolare.

Ecco
il testo che mi hanno spedito.

Mi
sembra strano che uno, dopo aver conosciuto ingredienti nuovi, non li
abbini a piatti più noti. È quello che succede a me:
più che nuove ricette, mi attraggono nuovi ingredienti. Poi,
una volta che li ho ‘capiti’, li mescolo idiosincraticamente.
Ho
scoperto lo zenzero in Australia una ventina di anni fa, e lo uso
spesso: con il risotto di zucca, mettendone due o tre fettine un un
padellino con l’acqua e facendone una tisana da bere calda, oppure
scaldato nell’olio con l’aglio e il prezzemolo e versato sulle patate
lesse, nel minestrone (dipende dalla verdure usate), ecc. In inglese
quando si vuole ravvivare qualcosa si dice
to
ginger it up
. Forse ho preso l’idea da questa espressione.

Non
mangiamo mai pane in casa, e ci piace la polenta. Così un
giorno per ravvivarla ci ho aggiunto un po’ di polvere di zenzero. La
cosa ha avuto successo, e da allora persevero quando posso con quello
fresco.

La
ricetta è semplice. Si fa la polenta normalmente, aggiungendo
insieme con il sale quanto basta/piace di polvere di zenzero. A volte
aggiungo anche la salvia, oppure il prezzemolo, ma quello che ci dà
il buono è lo zenzero.
Comunque io preferisco la farina
grezza, e ci metto lo zenzero fresco. Inoltre non la faccio
‘normalmente’, ma metto la farina in acqua fredda con sale e zenzero
in una pentola antiaderente pesante al titanio, e poi la mescolo
quando mi capita (due o tre volte) e la lascio cuocere da una a due
ore… certo non un modo ortodosso.
È buonissima
anche il giorno dopo abbrustolita.


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Ampalaya

 

Per essere amara, è amarissima, altro che cime di rapa o lampascioni. In Italia è ancora una presenza quasi clandestina, sostanzialmente sconosciuta al di fuori della comunità filippina. Per loro si chiama ampalaya (momordica charantia), ma è nota in generale come zucca amara (bitter melon o bitter gourd) e fa parte dell’enorme schiera di verdure che tutto l’Oriente produce e consuma e che l’Occidente ignora quasi completamente.

È un frutto verde e bitorzoluto, di un bel verde, cucinato dalla Cina all’India dove assume nomi diversi a seconda delle regioni. Ho parlato per esempio con due ragazze indiane del Kerala che ignoravano cosa fosse l’ampalaya, ma una volta vista l’hanno riconosciuta come pavaka (nome traslitterato dal malayam).

I filippini ne vanno ghiotti e sostengono che fa anche fa benissimo alla salute: in effetti è usata in varie medicine tradizionali in Asia, e le vengono attribuite numerose virtù, dalla digestione al trattamento della malaria. In effetti è già entrata nel mirino delle multinazionali: secondo un attivista filippino citato qualche anno fa da “il Manifesto”, questa zucca è ormai coperta “da tre brevetti di proprietà del Us National Institute of Health, l’esercito Usa (Us Army) e la New York University (rispettivamente i brevetti numero Us 5484889, Jp 6501089 e Ep 553357)”. L’ampalaya inoltre si è rivelata capace “di abbassare il livello di glucosio nel sangue. L’azienda farmaceutica Cromak Research Inc, del New Jersey, ne ha estratto un farmaco anti-diabete, e l’ha ovviamente brevettato (brevetto Usa numero 5900240)” (cfr. “il Manifesto”, 31 Gennaio 2001).

Come si diceva, gli italiani non la conoscono e non la consumano, ma lentamente da verdura legata alla nostalgia di casa, cresciuta in balcone o portata dai parenti di ritorno, oppure importata nei negozietti etnici, sta diventando un prodotto delle campagne italiane. Per il momento soprattutto grazie a un sistema informale composto da innumerevoli orti privati intorno a Milano che la smerciano “porta a porta”, insieme ad altre verdure come
l’okra. Ma un po’ alla volta sta entrando anche nel mirino dei produttori nostrani: “A Triginto di Mediglia, nelle campagne milanesi, Sergio Scotti della Coldiretti coltiva infatti pak choi, il cavolo cinese, assieme a ocra, ampalaya o zucca amara. ‘Ho cominciato
con il coriandolo, una specie di prezzemolo, ma ormai lo fanno tutti. Ci sono tanti extracomunitari che cercano le loro verdure e allora mi sono messo a coltivarle. Tutti i sabati sono all’ortomercato di Milano, quando è aperto al pubblico, e davanti al mio banco
c’è sempre la fila. (…) L’ampalaya no, non mi piace. È amarissima. I filippini invece ne vanno matti. Mi raccontano che la usano anche come una medicina: il giorno dopo che hai bevuto troppo ti fa stare molto meglio. Dicono che è diuretica’” (cfr. Repubblica, 10/ febbraio 2009, pag.31).

Uscirà dalla enclave filippina per entrare anche nella cucina italiana? È possibile, ma al momento non è facile prevedere come. Ho acquistato l’ampalaya in un supermercato etnico (importata dall’Indonesia, arriva una volta alla settimana), dove viene anche venduta in scatola (con latte di cocco, cipolla, aglio, gamberetti e peperoncino; product of the Philippines): un po’ inquietante, mi ricorda i ravioli in scatola, non so se avrò il coraggio di assaggiare. Ho provato a cucinare quella fresca saltata in padella con la cipolla, dopo averla svuotata dei semi e tagliata a pezzi: ho avuto bisogno di mangiarla con un formaggio che addolcisse il gusto.

Le ragazze del Kerala mi hanno detto che loro lo preparano ad esempio tagliata a fettine sottili con la cipolla, in padella con olio (“di cocco”), peperoncino e cocco grattuggiato. Questa non sembra male.

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Encocado

 

Questa ricetta me la manda Marco, conosciuto ai tavoli della Scighera.

Encocado

A me l’ha insegnata un signore di nome Leonardo, che mi ha ospitato
nella sua casetta per tre settimane in un isola piuttosto sperduta della costa ecuadoriana. Io stavo lavorando per una associazione ecuadoriana di difesa delle mangrovie e l’idea era quella di mettersi in contatto, appoggiare e rafforzare una piccola associazione di
concheros dell’isola (i raccoglitori artigianali di molluschi che si trovano fra le radici di mangrovie), nel tentativo di frenare la deforestazione.

Il signor Leonardo, un tipo molto simpatico, da piccolo era stato in una scuola gestita da un qualche padre missionario italiano… appena ci siamo incontrati subito mi ha chiesto se sapevo cucinare la pizza, di
cui aveva piacevoli ricordi d’infanzia. Quindi diciamo che c’è stato uno scambio di conoscenze gastronomiche: io gli ho insegnato a fare la pizza e lui a me l’
encocado.

Questa, più che una ricetta definita con ingredienti precisi, è un modo di cucinare tipico della regione di Esmeraldas, la zona nord della costa pacifica. L’ingrediente fondamentale è il cocco, nel cui latte si cuociono i prodotti naturali di questa zona dove i villaggi si trovano vicini agli estuari dei fiumi, a ridosso o spesso immersi nei boschi di mangrovie. Pertanto si preparano in questo modo diversi tipi di pesce di estuario dal sapore delicato, gamberetti, granchi, molluschi.

Qua in Italia ho provato, con buoni risultati, a cucinarlo con il pollo.
I gamberetti preferisco non usarli, sia perché quelli che si trovano qui provengono spesso da allevamenti industriali illegali che hanno provocato la deforestazione quasi totale dei boschi di mangrovie, con gravi conseguenze sociali e ambientali; sia perché, più semplicemente, il pollo costa meno.

1 noce di cocco, 1 petto di pollo, 1 cipolla grande, 2 pomodori, 2 spicchi d’aglio, prezzemolo, cumino

Una volta aperta la noce di cocco (che già non è facile), tenere da parte l’acqua; a questo punto grattugiare la polpa. In Ecuador quest’operazione si svolge tradizionalmente usando una conchiglia dal bordo ondulato, di cui le spiagge sono piene. La polpa grattugiata si strizza con forza e si ottiene in questo modo un liquido bianco molto denso, con un intenso profumo di cocco: il “primo” latte; anche questo si tiene da parte. Con la polpa rimanente, mescolata con un po’ d’acqua insieme a quella di cocco tenuta da parte e strizzata con un po’ di forza, si ottiene il “secondo” latte di cocco.

Qui in città ho rotto un po’ la poesia della preparazione e ho usato una centrifuga elettrica. Questa separa perfettamente la polpa dal primo latte, e nel filtro della centrifuga rimane anche un bel po’ di burro di cocco, che ho rimescolato con il primo latte. Con la polpa separata dalla centrifuga ho ottenuto il secondo latte.

Si prepara un soffritto con la cipolla e l’aglio sminuzzati, i pomodori a cubetti, un po’ di cumino (al gusto). Si aggiunge la carne tagliata a pezzetti, si fa rosolare un minuto poi si aggiunge il “secondo latte” di cocco. Si lascia cuocere fino a quando il pollo sarà cotto e il liquido quasi completamente evaporato. A questo punto si aggiungono il “primo latte” di cocco e un po’ di prezzemolo tritato e si lascia cuocere ancora un minuto. Alla fine il pollo dovrà trovarsi in una salsa cremosa.

Per costruire un piatto ecuadoriano intero, l’encocado andrebbe presentato con una porzione di riso bianco e alcuni “patacones”(banane platanos fritte).

Marco Ferrari, marcofenn@gmail.com



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