Pakora “italiane”

Ringrazio ancora Pietro (“Spaghettoni
alla cinese”), che ha mandato un’altra ricetta. Tra l’altro abbiamo appena pranzato assieme e gli ho cucinato una pasta alle melanzane e curcuma (ma la ricetta la racconto un’altra volta).

Il primo ad
insegnarmi la ricetta (totalmente scorretta) è stato Farhad,
un amico pachistano dei tempi dell’università, che studiava
medicina a Padova. Non rammento di dove fosse esattamente, ma ricordo
che quando tornava a casa mi diceva che faceva un viaggio lunghissimo
in corriera
per delle strade sterrate di montagna fino ai confini
con l’Afghanistan. Finita l’università ci siamo persi. Io e la
mia ex, Nayantara, abbiamo usato questa ricetta a lungo durante il
nostro periodo Veneziano, tanto che non sono più sicuro se
Farhad le facesse proprio così o se la ricetta che sto per
riportare sia il frutto di ulteriori "scorrettezze" da noi
introdotte. Ecco la ricetta:
Ingredienti. Pomodori, Farina 00,
polvere di curcuma, olio di semi di girasole, un pizzico di sale
(quantità a piacere)
Preparazione. Tagliate a cubetti i
pomodori e metteteli in una terrina fonda. Aggiungete la farina fino
a coprirli, come se fossero da impanare, poi aggiungete ancora
qualche cucchiaio di farina. Mescolando il tutto con le mani, unite
poca acqua fino a che la farina non inizi a costituire una pastella
abbastanza densa. mettete infine la curcuma, per dare un po’ di
colore, e il sale.
A questo punto scaldate l’olio nello wok e
quando è bollente prendete con le dita delle mani un po’ della
pastella e pomodori e lasciatelo colare nell’olio in modo da formare
una piccola frittella tonda a pallina. Fate attenzione che l’olio sia
abbastanza profondo e che copra completamente la frittella in modo da
cuocerla uniformemente. Non appena la pastella tocca l’olio tende a
raggrumarsi, per cui bisogna fare un po’ di attenzione a come si
lascia colare la pastella dalle mani assieme ai pomodori per cercare
di formare frittelle uniformi. Di solito le prime sono un po’
bruttine: o troppa pastella o troppo poca. Quando la pastella è
troppa, questa si adagia sul fondo creando un tondello piatto con i
pomodori solo in superficie, per cui è bene che prendete un
cucchiaio di legno o delle bacchette e ribaltarla cercando di
restituirle un po’ di forma. Se la pastella è troppo poca i
pezzetti di pomodoro si separano. Dopo qualche prova, si intuiscono
le giuste quantità e i tempi di cottura. Quando la frittella
inizia a imbiondire e mostrare una superficie esterna abbastanza
dorata e scura, la
pakora è pronta. Toglietela dall’olio e,
come per tutte le fritture, mettetela sulla carta assorbente.
Quando,
alla fine dell’università, Nayantara si è trasferita a
Roma vicino ai suoi, ha visto come faceva sua mamma (originaria di
Shanti Niketan, vicino a Calcutta) e ha deciso che le sue
pakora
fossero quelle "vere". Quelle "vere" hanno di
base la farina di ceci, che ai tempi noi non trovavamo, ma che ora si
vende un po’ ovunque. La farina di ceci ha un sapore non molto
diverso, ma è più giallognola e prende subito una
colorazione più bella. Tra l’altro, le pakora che ho provato
finora al ristorante indiano erano fatte con tanti tipi di verdure,
ma mai di pomodori. La madre di Nayantara, in particolare, le fa con
le foglie di spinaci, che rispetto ai pomodori sono più
asciutte e dunque più facili da realizzare. Nella ricetta
classica, infine, non mancano le spezie come il peperoncino, il
coriandolo ed eventualmente il cumino.
Come servirle. Le
pakora
non sono un piatto principale. Al ristorante indiano in Italia le
servono in una ciotola comune come antipasto. Noi le mangiavamo da
sole, accompagnate con il riso, o usandole come contorno di un piatto
più importante: di solito era il pollo. Questo, naturalmente,
in un ottica italiana. Non sono mai stato in India, ma la mamma di
Nayantara, quando cucinava indiano, serviva tutti i piatti
contemporaneamente e ognuno prendeva un po’ di tutto indistintamente,
anche con le mani. Se si usano le mani in effetti tutto diventa più
gustoso.

Pietro Amadini,
amadpi@tiscali.it

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Okra

Con l’aria che tira magari anche l’okra, simpatico ortaggio, potrebbe incorrere nel reato di clandestinità ed essere espulsa. Niente a che vedere con la legge liberticida e incivile sulla “sicurezza”, ma di sicuro l’okra (Abelmoschus esculentus) è consumata ovunque nel mondo tranne in Europa (a esclusione dei Balcani). Ma ora, con l’arrivo degli immigrati, si farà sicuramente strada sulle tavole italiane.

La sua origine risiede nell’altopiano Etiopico da dove si è diffusa in tutta l’Africa e l’Oriente, nei Balcani e, con lo schiavismo, nelle Americhe. Ha nomi diversi a seconda di dove si consuma, quelli più ricorrenti sono gombo (in Africa soprattutto) oppure okra, ma cambia a ogni luogo: quiabo in Brasile, bamja nei Balcani, kanja in Senegal e via di seguito.

Ha l’aspetto di un baccello verde di 8-10 cm a sezione pentagonale, è ricca di vitamina A e C e ha un sapore delicato, simile a quello degli asparagi. In cucina viene usata nei modi più svariati e le ricette si possono trovare facilmente nel web, specialmente nei siti stranieri, anche se qualcosa comincia a essere pubblicato anche in quelli italiani. Si prepara da sola o con la carne, ma forse l’utilizzo che sfrutta meglio le sue peculiarità è nelle minestre e negli stufati: l’okra, infatti, produce un liquido appiccicoso (la sua vera bontà, mi hanno raccontato con gli occhi luccicanti) che funziona come coagulante naturale.

Ho letto che viene coltivato anche in Sicilia, ma di solito sono sempre di importazione. Il suo consumo sta aumentando, ma la loro reperibilità è soprattutto nei negozi etnici e in qualche mercato: a Milano si trova ad esempio nel mercato rionale di piazza 24 maggio, in Ticinese: in città è famoso, perché ha ormai convertito tutta la sua offerta al mercato straniero, filippino e sudamericano soprattutto.

In un negozietto vicino alla Stazione Centrale sono in vendita a 2 euro il sacchetto (a occhio 2-3 etti), coltivati in Nicaragua. Non precisamente economici. Tra gli scaffali ho trovato anche una bustina di okra in polvere (prodotto in Senegal, 1 euro per 80 grammi), che mi hanno spiegato si usa come addensante.

In realtà esiste un mercato parallelo che si muove però “porta a porta”, al di fuori dei canali ufficiali.

Ogni giorno, infatti, dalla primavera fino ai primi freddi, arrivano a Milano decine di furgoni o di auto carichi di cassette o sacchi di ortaggi. Soprattutto dal bresciano e dalla bergamasca, dove i filippini hanno conquistato parecchi terreni altrimenti non coltivati. Ma anche dal lodigiano e dal pavese. All’ inizio, ci fu il tentativo di proporre la mercanzia direttamente nei pressi dei grandi mercati meneghini. Ma diverse sortite dalla parti di Papiniano, di via Fauché, di via Osoppo e di Lambrate stimolarono l’attenzione dei vigili e quindi si pensò che sarebbe stata più discreta e più funzionale una distribuzione capillare e
nascosta a occhi investigatori. Ed è così che decine decine di signore filippine ricevono ogni settimana una certa quantità di prodotti e, in un certo senso, aprono una loro piccola e casalinga bottega clandestina per la vendita al dettaglio.

(Carlo Lovati, «Ortomercato» filippino tra business e nostalgia, Corriere della Sera, 20 agosto 2007, p. 4)

Nella
cucina italiano è un ortaggio che potrebbe trovare ampio
spazio, basta solo avere un pizzico di fantasia: Justin, nel libro,
li ha usati per condire gli spaghetti e non erano niente male.

Allego una ricetta “corretta”, tratta da un romanzo veramente gustoso che mi fa piacere segnalare: Calixthe Beyala, Come cucinarsi il marito all’africana, Epoché, Milano 2004 (p. 13-14)

Gombo alla paprika

ingredienti
(per 6 persone). 1 kg di gombo, 1 cucchiaio da tavola di paprika piccante, 1 scatoletta di pomodri pelati (250-280 g), 1 bella cipolla, 2 spicchi d’aglio, 3 o 4 cucchiai da tavola d’olio di palma, sale, pepe, basilico secco o tritato (facoltativo).

Preparazione.
Accendere il forno. Eliminare i gambi e le punte dei gombo. Tritare finemente la cipolla e l’aglio. In una pentola, far rosolare la cipolla e l’aglio nell’olio di palma. Aggiungete la scatoletta di pomodori pelati rimestando in modo da schiacciarli. Far cuocere 5 minuti a fuoco lento. Aggiungere la paprika, il sale e il pepe. Mescolare. Aggiungere un bicchiere d’acqua. Far cuocere 5 minuti a fuoco lento. Mettere della salsa in un piatto da forno. Disporvi i gombo. Ricoprire con la salsa restante e spolverare a piacere di basilico. Far cuocere in forno per 30 minuti aggiungendo un po’ d’acqua per mantenere il livello della salsa, se necessario. Servire caldo.

Un bel piatto di gombo alla paprika ti schiarirà le idee, figlia mia” (p. 12)

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cucina italiana e cinese

Questa
è l’insegna di una trattoria in periferia a Milano, in via
Gallarate. Passavo e non ho resistito alla tentazione di scattare una
foto.
Non sono entrato perché era ancora chiuso,
ma nonostante le mie fantasie non credo che questo loclae abbia una
cucina italo-cinese, bensì appunto italiana e cinese.

Sono ormai molti gli esercizi rilevati
da cinesi, sia bar sia trattorie e pizzerie, che offrono normalmente
cucina italiana oltre che cinese: probabilmente sono frutto di
un’espansione economica e forse anche di una contrazione del mercato
dei ristoranti cinese (non credo a causa delle minacce della Lega,
quanto delle paure dell’influenza aviaria, etc.).

L’accostamento delle due cucine credo
risponda al semplice tentativo di ampliare la clientela: in effetti
sono pochissimi i casi di meticciato tra le due tradizioni, e i
cinesi sono ancora più attaccati degli italiani ai propri
gusti e abitudini. Sono giusto riuscito ad avere un’intervista a Yuan
sul libro e per il blog Pietro mi ha mandato una sua ricetta ispirata
alla cucina cinese (Spaghettoni alla cinese).

Parlare poi di cucina cinese a Milano e
in Italia significa in realtà considerare una realtà
dove l’fferta è ormai standardizzata sui gusti e le
aspettative dei consumatori italiani, e il più delle volte è
lontanissima dalla vastità e dalla varietà della cucina
del Celeste Impero.

Esiste un tentativo di pochi anni fa di incontro tra le
due tradizioni: il progetto "CROSSROADS – where lombard tradition
meets chinese taste", promosso da Regione Lombardia, Unioncamere
Lombardia e Consorzio per la Tutela del Formaggio Grana Padano, con
il coordinamento di Chinapartners. Si tratta di un’iniziativa
decisamente artificiale e dichiaratamente commerciale per la
promozione dei prodotti lombardi, con una equipe di otto cuochi
cinese coordinati da uno italiano, che ha prodotto venti ricette. Sono piatti frutto di quella che viene definita cucina fusion, invenzione di
professionisti insomma, ben diversa dal naturale incontro della
quotidianità culinaria. In ogni caso le ricette sono curiose,
ma il sito è fermo almeno da qualche anno, e la sensazione è
che il progetto non sia andato oltre la fase iniziale.

http://www.italia-crossroads.com

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Aperitivo di lychees alla veneta

L’abbiamo provato domenica scorsa a pranzo, seduti nella magnifica terrazza di Carolina.

1 bottiglia di prosecco veneto, succo di lychees

Mischiare a piacere succo e vino e riporre in frigorifero. Le  proporzioni che mi sembrano giuste sono 1 a 2 (una parte di succo e due di prosecco, meglio se di Valdobbiadene) ma tutto è possibile.

L’idea è venuta quando, dopo aver provato il succo di lychees a una festa indiana, me lo sono ritrovato in un negozio nella Chinatown di Milano. È bastato adocchiare un po’ di prosecco in offerta e l’associazione delle idee è stata immediata. È molto dissetante!

Carolina Orsini, tayapucru@gmail.com

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Ossobuco e cous cous

Probabilmente, è stata la prima volta che ho consapevolmente preparato una ricetta scorretta, o perlomeno è l’episodio che mi è sempre rimasto in un angolo della memoria finché non si è sviluppata l’idea di scrivere il libro.

L’ossobuco per me non è un piatto normale, direi che rappresenta una pietanza quasi
auto-identitaria. Me lo cucino quasi sempre da solo (caso raro, le ricette che mi piacciono desidero sempre condividerle), soprattutto quando sono triste per mettermi di buon umore, oppure quando sono allegro per godermi lo stato d’animo. Quando torno da un lungo viaggio, è il piatto che desidero mangiare per primo.

Secondo la tradizione milanese l’ossobuco si accompagna con il risotto giallo, ma io preferisco il riso bianco che esalta il gusto del sugo e della carne e soprattutto è più veloce da preparare.

Quella sera, qualche anno fa, lo stavo cucinando come mi piace: leggermente infarinato, scottato in burro spumeggiante e aglio, tirato a cottura con vino rosso allungato con
un goccio d’acqua; alla fine un trito di buccia di limone e prezzemolo, e poi pepe. Carne di vitellone ovviamente, più dura del vitello ma molto più saporita del vitello.

Però, nonostante la mia convinzione, di riso ce n’era pochissimo in dispensa (meno di un etto e mezzo mi mette tristezza). La sostituzione co

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presentazione 20-6-09

 
presentazione
Andrea Perin, "Ricette Scorrette. Racconti e piatti di cucina meticcia"

Conversazione con l’autore e intermezzi golosi e musicali
NOTTE ROSA di Corsico
20 giugno 2009, ore 21.00
Antico cortile di via Cavour 76

Per informazioni: Biblioteca Comunale tel. 024480677
bibliotecacentrale@comune.corsico.mi.it

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L’invenzione (inventata) della pizza margherita

Si può definire il giorno,
l’anno, il momento in cui venne inventato un piatto di cucina?

Giovedì 11 giugno si è
festeggiato a Napoli, con tanto di corteo composto da figuranti
preceduto da una carrozza che trasportava la Regina Margherita, i 120
anni da cui il pizzaiolo Brandi preparò e dedicò alla
regina l’oramai celebre pizza. Una targa sul locale riporta il
messaggio di Casa Savoia (tra le poche cose “sensate” compiuta
dai nostri ex-regnanti?): "Pregiatissimo signor Raffaele
Esposito Brandi, le confermo che le tre qualità di pizze da
lei confezionate per sua Maestà la Regina, furono trovate
buonissime. Mi creda di Lei Devotissimo Galli Camillo, Capo dei
servizi di tavola della Real casa". Secondo la tradizione, la
terza sarebbe stata inventata lì per lì, con
l’intenzione di rendere omaggio alla regina, e utilizzò degli
ingredienti con i colori della bandiera sabauda: rosso il pomodoro,
bianco la mozzarella e verde il basilico.

Ora, è chiaro che iniziative di
tipo turistico o semplicemente squisitamente commerciali, hanno il
loro significato: ora la pizza è un prodotto che segue il
disciplinare di qualità STG (Specialità Tradizionale
Garantita) che ne definisce con precisione gli ingredienti e modalità
di preparazione.
(http://www.pizza.it/NotizieUtili/disciplinare-pizza-napoletana-doc.htm)

Ma è altrettanto vero che si
tratta di tradizione inventata: al massimo venne creato il nome, non
certo una pizza con questi ingrediente che sicuramente esisteva già
ancora. Le prime attestazioni sulla sua produzione a Napoli risalgono
al Seicento e al Settecento. “La pizza è all’olio, al lardo,
alla sugna, al formaggio, al pomodoro, ai pesciolini” scriveva
Alexandre Dumas, a Napoli nel 1835.

C’è anche da dire che la pizza
napoletana, pur avendo sviluppato le sue fantastiche peculiarità
organolettiche, ha molto in comune con altri piatti presenti in tutto
il mondo: è una spianata di cereali, tonda, cotta su piastra o
al forno e completata con gli ingredienti locali; come ad esempio la
pita araba, il nan indiano e la tortilla messicana.

Probabilmente esisteva già a
Napoli una pizza prima della diffusione in cucina del pomodoro, e
chissà come sarà sembrata scorretta la prima volta che
venne aggiunto questo nuovo frutto.

 

Franco La Cecla, La pasta e la pizza,
Il Mulino, Bologna 1998

 

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Bruschetta kebab

Sempre da Venezia, sempre foto di Irene Gomez.

La ricetta si può interpretare con facilità…

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Pizza kebab

“Qui a Venezia tranci e kebab si
possono ancora mangiare per strada, anche se non so fino a quando…”
mi scrive il Volpe. Un suo amico mi manda questa storia. La foto è
di Irene Gomez, si riferisce a un’altra pizzeria e soprattutto al
meticciato che avanza….


Scrivo riguardo a una ricetta scoperta qui, a Venezia, su una
pizzeria che si trova in Campo Santa Fosca di Cannaregio.
Naturalmente, tale ricetta non si trova ne sul listino delle pizze
normali (tradizionali) ne di quelle “speciali”.


La scoperta è stata fatta da una mia collega dell’Istituto
Romeno quando, andando alla pizzeria che si trova proprio vicino a
noi, ha visto il pizzaiolo (che allora era un albanese …di nome
Ilir) che si era preparato (per la sua pausa pranzo) una pizza che
conteneva rucola fresca, carne spezzettata del kebab, pomodorini
freschi e mozzarella (messa in forno con la pizza). Chiedendo di cosa
si tratta, le fu risposto che si trattava di una sua fantasia. Ne
acquistò un trancio.


Da allora, quasi tutte le volte che si andava a ordinare la pizza si
richiedeva una pizza … “al kebab”. Furono sperimentate nuove
varianti: insalata al posto della rucola, aggiunta di salsa di yogurt
all’aglio (quella del kebab) e tutti gli altri contenuti che
normalmente vengono messi sul kebab … un paio di volte perfino le
patate (risultato discutibile e, dal mio punto di vista, un po’
deludente).


Oggi giorno alla pizzeria di Santa Fosca i pizzaioli sono due ragazzi
indiani (o della zona) che producono su richiesta la pizza al kebab
(dato che esiste una continuità di ordinazioni da parte mia e
dei miei colleghi) anche se, devo dire, mi dispiace tanto che Ilir
non sia più pizzaiolo qui (era bravissimo a creare e le sue
pizze erano migliori di quelle attuali), e per citarlo: “Ogni tanto
ci si deve mettere anche un po di cuore nel fare la pizza”.

Sandro

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Presentazione radio 5-6-09

Venerdì 5 giugno 2009, ore 14.00 nel corso del programma "Jalla Jalla" su Radio Popolare,
presentazione di

Andrea Perin, "Ricette scorrette. Racconti e piatti di cucina meticcia", Elèuthera

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