Lasagne Halal

Ma anche ravioli ripieni di manzo o di
pollo (in scatola) e ragù “alla bolognese” (in barattolo
di vetro), oppure Paella 

(precotta). Tutti
halal, cioè
leciti secondo la religione islamica e certificati dalla grande
moschea di Parigi.

Si tratta di una linea di prodotti
francesi (Zakia è la ditta) che offrono piatti europei
realizzati con ingredienti che li rendono ammissibili al musulmano.
Nei giorni di Ramadam la televisione d’oltralpe ha trasmesso uno spot
nel quale una coppia di beurgeois (neologismo da beur
– africani e bourgeois – borghesi) si riempiono il
carrello di lasagne in scatola e altri cibi confezionati di questa
ditta.

http://www.youtube.com/watch?v=sLUFru_zUYc

La notizia (che ho trovato su un
trafiletto di “Il venerdì di Repubblica) appare a un primo
sguardo curiosa e divertente; se non meticcia, almeno capace di
suggerire la possibilità di superare certi meccanismi
identitari in cucina.

In realtà questi cibi
confezionati sono un prodotto squisitamente commerciale: il mercato
dei prodotti halal è uno dei più grossi business, in
continua espansione in tutta Europa.

E francamente il raviolo in scatola mi
fa anche un po’ di tristezza (pensavo fosse praticamente scomparso,
USA a parte), mentre l’irritazione verso la lasagna precotta e il
sugo in barattolo è attenuata solo dal fatto che ormai sono
una molesta costante degli scaffali italiani.

Anche la pubblicità, ambientata
in un supermercato frequentato da soli nordafricani e ristretta a un
pubblico dai contorni “etnici” chiusi, può assumere toni
xenofobi.

Non che in Italia vada meglio. Nel sito
etnica.biz, dedicato al marketing etnico, è affrontato il tema
della xenofobia nella comunicazione. Riporto un breve brano dal sito:

(…) È
sufficiente esaminare la comunicazione della maggior parte delle
organizzazioni economiche italiane per notare come siano tutte
impegnate, come osservato da Bernard Cova (Il Marketing tribale, Il
Sole 24 Ore, Milano, 2003), ad analizzare e comprendere l’uomo
medio e di come la monocultura italiana – bianca, cattolica,
normodotata, eterosessuale, iperattiva, politicamente moderata –
domini tutta la loro strategia.

Le imprese
italiane si dichiarano differenti, creative e innovative ma in realtà
sono dominate dal pensiero unico e tutti i giorni lavorano per
rafforzare la normalità, la tradizione, la ragione, la
sicurezza, la tranquillità, il buon senso (nel gergo
marketing, il mainstream).

Sono in gran parte
terrorizzate dall’idea di contaminare la propria cultura e la
propria immagine con “negri”, musulmani, gay ed handicappati e
perdere così la clientela “normale” ben rappresentata da
imprenditori e manager trentenni e glamour, da famigliole bianche,
belle e felici.

E continuano a
discriminare le donne come provato dal Gender Gap Index elaborato dal
World Economic Forum (…).

Il marketing è
xenofobo. Ha letteralmente paura del diverso, dell’estraneo,
dell’insolito. Spesso la xenofobia del marketing diventa razionale
anche se – con eccezione dei partiti politici e dei media – la
comunicazione non fa lo trasparire perché, per ora, esiste una
normativa (i decreti legislativi 125 e 126 del 9 luglio 2003) che
dovrebbe garantire parità di trattamento – indipendentemente
dal genere, dall’origine razziale o etnica, dalla religione
professata, dagli handicap, dell’orientamento sessuale, delle
convinzioni personali e dell’età – nell’accesso al
lavoro, negli avanzamenti di carriera, nella retribuzione, nella
formazione, nella sicurezza sociale, nell’assistenza sociale,
nell’istruzione e nell’accesso a beni e servizi.

Una normativa che
dovrebbe essere fatta applicare dall’Ufficio nazionale
antidiscriminazioni razziali (Unar) che dipende direttamente dalla
Presidenza del Consiglio di Ministri e che non
ha
ancora pubblicato il rapporto relativo al 2008. (…)

Enzo
Mario Napolitano, IL MARKETING È XENOFO!

http://www.etnica.biz,
agosto 2009

 

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Pasta zucchine e curcuma

 

C’è poco da fare, ormai sono un drogato di curcuma.

E dire che fino poco tempo proprio non mi piaceva. Mi era rimasta la sensazione di quando la incrociavo tanti anni fa nei mercati in giro per il mondo: spesso veniva scambiata per una specie di zafferano dei poveri perché colorava e costava molto meno; ma il sapore un’altra cosa e il confronto, anche se immotivato, deludeva sempre.

Non mi ricordo il momento della svolta, o la sua causa, fatto sta che ora uso tantissima curcuma in cucina, soprattutto in piatti “normali” come le patate al forno o le uova fritte, a volte anche un pizzico nel sugo di pomodoro. Una droga insomma.

Nella pasta con le zucchine riesce però a dare quella personalità che spesso, a queste pur simpatiche verdure, manca. Nella padella con l’olio e uno spicchio d’aglio metto mezzo cucchiaino di curcuma e un po’ di peperoncino in polvere. È importante mettere le spezie nell’olio all’inizio così si sciolgono bene e rilasciano bene il loro sapore. Me lo spiegò
Sandeep quando lo intervistai per il libro e da allora seguo sempre questa indicazione.

Quando il soffritto prende un bel colore arancio aggiungo le zucchine a rondelle (2 zucchine per 200 grammi di pasta), sale e faccio cuocere. Quando sono pronte verso nella padella la pasta lessata e la faccio saltare qualche minuto. Formaggio a piacere.

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Cagliari, Marina Caffé Noir

 

Venerdì 11 settembre, a
Cagliari, in piazza San Sepolcro alle ore 20.30, si parlerà de
“Il gusto degli altri” con Sonya Orfalian, Andrea Perin,
Francesco Scanu e Paolo Pinna.

La serata è organizzata
nell’ambito di “Ospiti
delle città
”, settima
edizione del Marina Café Noir, festival di letterature
applicate. Organizzato come sempre dall’Associazione Culturale
Chourmo di Cagliari.

Quest’anno “reclama la sua
metropolitanità sin dal titolo, riallacciandosi direttamente
alla propria storia e alla propria vocazione urbana e meticcia, così
come sin dal titolo evoca esplicitamente la sua abitudine allo
scambio e al movimento, mettendo l’accento sulla condizione
transitoria – da passeggeri, verrebbe da dire – di ognuno di noi”.

http://www.marinacafenoir.it/

Conosco da qualche anno il Marina Cafè
Noir e suoi splendidi organizzatori, che ogni anno allestiscono una
manifestazione intelligente, intrigante, vivace e ospitale. Cagliari
non è facile da raggiungere dal continente forse, ma ne
varrebbe la pena.

 

 

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etnoanarchia

E’ il titolo di un servizio sul libro (Ricette scorrette. Racconti e piatti di cucina meticcia, ed. Elèuthera) che è uscito oggi sul supplemento odierno di Repubblica (D Repubblica delle Donne – autrice Cristiana Ceci).

E’ buffo vedere le ricette che di solito prepari a casa e presenti agli amici nella padella, realizzate e fotografate come se fossero frutto di una cucina professionista. In fondo è una bella confezione che si spera aiuti a veicolare meglio il messaggio: la cucina è in movimento, la tradizione non è statica, i nuovi arrivati sono una risorsa e non un problema.

Avanti con l’etno-anarchia!

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Pizza kebab due

Credo che la pizza e il kebab, in modo
diverso, siano al momento tra i cibi di strada più diffusi in
Italia, forse anche in Europa. La pizza in realtà, da piatto
originario di Napoli, è diffuso in tutto il mondo, viene
preparata da chiunque e ovviamente non solo da italiani, tanto da
aver spesso perso ogni denominazione di origine. Negli USA sono
spesso convinti sia un’invenzione loro.

Forse per il kebab il futuro è
uguale, e magari un giorno vedremo biondi padani affettare con
maestria le carni. Chissà.

Intanto spesso sono vendute nello
stesso esercizio. Qualche volte sono proposte assieme e la prima a
parlarmene fu Gaia, che ora mi ha anche mandato il suo racconto.

Gli slanci per
cui arrivare a fare le cose, a provare le novità, a cambiare
la strade abituali possono essere infiniti e impercettibili, ma non
ho dubbi nello scrivere che quello che mi ha spinto a provare la
pizza al kebab, sono state le chiacchierate con Andrea, le ricette
con lui provate e la curiosità trasmessa. In generale nel
viaggiare ho sempre assaggiato ciò che offriva il luogo e non
mi era noto… ma qui è altra cosa, qui ci si allarga proprio
sul terreno della tradizione, quella che si è vissuti sulla
pelle, dall’infanzia.

LA PIZZA AL
KEBAB, ha proprio questo sapore.

Insomma ero a
Lacchiarella (piccolo comune nei pressi di Binasco, Milano), e vicino
dove lavoravo c’è un kebabbaro con tavolini fuori, quasi in
mezzo al parco; il ragazzo che lo gestisce è chiamato Paolo,
da queste parti da 8 anni ormai, ma prima era chiamato Farid. Gli
spiego la mia intenzione: io che mangio con moltissimo gusto e
piacere sia la pizza che il kebab, ora voglio assaggiare l’incontro
tra i due. Ci consultiamo e alla fine vince il non mettere la
cipolla, che dopo devo ancora lavorare e ho troppa paura della scarsa
capacità di digestione del mio organismo… Per il resto metti
tutto e abbondante. Farid/Paolo mi sfida pure dicendo che se mangio
da sola tutta una pizza maxi, me la regala. Ma maxi è davvero
enorme e preferisco pagare!

Quindi ceno
così e ammetto che l’insieme mi stranisce parecchio: c’è
la carne che si sposa bene con la pasta della pizza (abbastanza
sottile lo strato, che mi permette di arrotolare la fetta come mai
fatto per trattenere il tutto), l’insalata e le salse a tratti mi
fanno dimenticare che è pizza. Esperimento piacevole, forse da
rifare, forse avrò altre voglie.

Bella la prova
comunque, la chiacchiera con Farid/Paolo e gli spunti del Perin!

Gaia
Silvestri, gaia.silvestri@gmail.com

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Piranha per cena

L’estate, si sa, è il momento in
cui i mezzi d’informazione danno rilievo a notizie che di solito, al
massimo, meritano due righe in fondo alla cronaca locale.

Ma questa del piranha pescato
nel Po tra Parma e Cremona, essendo io cresciuto con le letture di
Salgari (acque che ribollono rosse di sangue, denti voraci che
spolpano in pochi minuti), è un notizia che mi colpisce e
diverte. La storia è banale: il pescatore si trova
questo pescione sconosciuto tra le mani, probabilmente mollato nel Grande Fiume da un
collezionista stupido, si informa presso l’Acquario del Po a Motta
Baluffi (CR) e poi finisce in cronaca. Cose che succedono si direbbe,
l’Italia è ormai piena di specie “aliene” giunte per vari
motivi.

Il pescatore con il piranha. Da http://www.gazzettadiparma.it/primapagina/dettaglio/2/26021/Un_piranha_pescato_nel_Po.html

Quello che mi ha colpito è la
dichiarazione del pescatore al tg: l’avrebbe anche mangiato, ma dopo
tutta questa notorietà non lo farà più.

Ma no, è un peccato! In Mato
Grosso non sono riuscito, ma mi hanno detto che la zuppa di piranha

è buonissima. Sarebbe stata anche un’occasione unica per
provare qualcosa di nuovo, un sapore inconsueto, che ne so un risotto
al piranha, oppure solo al forno con le patate…

Pazienza. Però, se qualcuno ne
pesca un altro me lo faccia sapere, che ce lo cuciniamo assieme!


Per sfizio, allego comunque una ricetta
della zuppa di piranha. Non sto a tradurla, direi che si capisce.

Sopa de piranha

6 unidade(s) de
piranha limpa(s)
2 unidade(s) de suco de limão
6
dente(s) de alho amassado(s)
3 colher(es) (sopa) de azeite de
oliva
2 unidade(s) de cebola picada(s)
3 unidade(s) de tomate picado(s)
1
unidade(s) de pimentão vermelho picado(s)
1 maço(s)
de salsinha picado(s)
1 maço(s) de coentro picado(s)
2
colher(es) (sopa) de farinha de mandioca crua

1º passo: Tempere os peixes com o
suco de limão, sal e o alho e deixe tomar gosto por 30
minutos.
2º passo: Depois desse tempo, coloque o peixe com o
tempero numa panela, cubra com água e deixe cozinhar até
ficar macio. Retire do fogo, espere esfriar um pouco e bata no
liquidificador. Passe por uma peneira fina.
3º passo: Na
mesma panela em que cozinhou o peixe, aqueça o óleo e
frite a cebola. Junte o tomate, o pimentão e os temperos
verdes picados e refogue.
4º passo: Adicione o caldo coado e
a farinha de mandioca e ferva por alguns minutos. Sirva quente.

(Bruna Trevisani, Neusa de Mattos,
Regina Helena de Paiva Ramos, Tereza Maria Barbosa, Sabores da
Cozinha Brasileira
, Editora Melhoramentos 2004)

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Pastasciutta e India

Estate, periodo di viaggi.

Se in questo blog si è sempre
parlato di come la cucina italiana si stia contaminando con quelle
delle nuove culture in arrivo, forse questo è il momento per
verificare cosa succede ai piatti italiani all’estero.

Nessuno sguardo sciovinista, per
favore, nessuno snobismo alla pasta scotta altrui. Ma la curiosità
di vedere come il meticciato in cucina si muova secondo le esigenze e
le contingenze più imprevedibili. Dove gli “altri” sono
gli italiani.

Offro qualche foto di un mio viaggio,
ormai purtroppo di qualche anno fa, in Tamil Nadu, India. Nel mercato
di Pondicherry, piccola cittadina di mare dove l’occupazione francese
ha lasciato evidenti tracce anche nella cucina, mi sono imbattuto in
grandi sacchi di pasta alimentare.

Sì, la nostra pastasciutta, ma
in formati strani e in colori accesi che a noi sono spesso
sconosciuti (chissà come suonerà loro esotica la pasta
in lettere latine, in uno stato dove si scrive in Tamil!). La
produzione era sicuramente locale, la vendita sfusa, ma ignoro come
venisse cucinata: di sicuro era per un uso casalingo, al di fuori
della ristorazione dove non appare mai nel menù (e spesso non
ho mangiato in ristoranti “per turisti”). Un segnale insomma di
come la pasta alimentare, da cibo identitario italiano, sia ormai
uscito dai confini e sia entrato in uso anche dove la nostra
penisola, probabilmente, sanno a malapena che esiste.

Secondo i dati dell’Unione Industriali
Pastai Italiani (http://www.unipi-pasta.it), l’India è al 21°
posto per produzione di pasta al mondo con 100.000 tonnellate
(l’Italia è ovviamente prima con 3.161.707 tonnellate);
mentre non rientra nelle statistiche per il consumo pro-capite, o
almeno è sotto al chilo e non rientra nelle tabelle (in Italia
si consumano 26 k all’anno).

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Storiella padana centopercento

 

Parafrasando un famoso testo con
cui Ralph Linton proponeva ai suoi studenti la prima lezione di
antropologia culturale
1,
potremmo immaginare una storiella di questo tipo:

un qualsiasi
abitante di una qualsiasi città del nord Italia si alza la
mattina e si siede a tavola per la colazione: beve una tazza di
caffè, originario della penisola arabica, o una tazza di tè,
bevanda indiana, addolciti con un cucchiaio di zucchero, raffinato
per la prima volta in India. Mangia una fetta di pane, importato
nell’Italia pre-latina dai Greci, con una marmellata di albicocche
(di origini cinesi). Se si comporta da salutista, prende anche uno
yogurth, il vitto dei poveri in Turchia, e una spremuta di arancia,
frutto proveniente dall’Oriente tramite gli arabi.

A
pranzo si mangia un bel piatto di risotto alla milanese: sia il riso
che lo zafferano arrivano dall’Oriente. Di secondo una cotoletta
alla milanese, cotta con una tecnica, l’impanatura e la frittura,
comune a tutte le culture; la guarnisce con patate arrosto, giunte
dall’America, o spinaci, originari del Nepal.

A
cena ovviamente polenta (il mais arriva sempre dall’America),
magari con il tacchino ripieno alla milanese (altro animale
americano) o la mitica Cassoeula (il maiale venne addomesticato per
la prima volta in Cina, circa 10.000 anni fa).

Prima
di andare a letto si beve un grappino (i distillati giunsero in
Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando con orrore a quanto
gli immigrati possano inquinare la sua cultura, “ringrazia una
divinità ebraica”
2
di averlo fatto al cento per cento padano.

 da Andrea
Perin, La fame aguzza l’ingegno. Cucina buona in tempi difficili,
Elèuthera, Milano 2005, p. 11

1
Riportato
in Marco Aime,
Eccessi
di culture
,
Einaudi, Torino 2004, p. 24/26

2
Dal
testo originale

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Risotto con salsiccia affumicata rumena

 

Del bel matrimonio in Transilvania tra
Gianluca e Paula, lui italiano e lei della minoranza ungherese,
ricordo molte cose: la cerimonia, le persone, i balli, le copiose
bevute di palinka (orgoglioso distillato di frutta).

I sapori sono durati anche nei giorni
successivi, prosaicamente, grazie anche ai quasi due chili di carne
di maiale affumicata che avevo acquistato nelle locali macellerie, e
che mi hanno permesso di prolungare a Milano la particolare
predilezione che hanno in Romania per questo tipo di conservazione.

Quando ho scoperto che vicino a casa
hanno aperto un negozio di produse traditionale românesti
(La bunica), non sono riuscito a trattenermi dall’acquistare tra le
altre cose anche le salsicce affumicate (
carnati oltenesti),
che già mi ero portato l’altra volta. 

 

 

Sono sottili, lunghe,
compatte, con un profumo penetrante, preparate con carne suina e
vaccina in parti uguali. Ottime per un risotto, secondo me.

 

Ingredienti: 400 g riso, 150 g di
salsiccia, cipolla, burro, formaggio grattugiato, rosmarino, mezzo
bicchiere di vino rosso generoso, brodo di carne (saporito, meglio di
manzo, assolutamente no di dado che è una porcheria!).

Il risotto si prepara come al solito:
fate il soffritto di cipolla e burro (trovo che sia uno dei profumi
più buoni della cucina, altro che madeleine),
aggiungete la salsiccia tagliata a pezzettini, tostate il riso
qualche minuto, sfumate con il vino (un’eresia per molti, ma io
preferisco il rosso) e poi aggiungete il brodo bollente un mestolo
alla volta. La carne affumicata ha un sapore deciso, il brodo è
meglio che sia saporito per legare meglio. Quasi alla fine aggiungete
un po’ di rosmarino tritato, e quando è pronto mantecate con
il burro e poi formaggio a piacere.

Temo non sia un piatto proprio estivo,
io ho approfittato di un calo di temperatura qualche giorno fa per
prepararlo. Sennò è ottimo per climi più freddi.

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recensione su repubblica.it

 

http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/spettacoli_e_cultura/passaparola-2009-4/perin/perin.html

I
racconti con ricetta di Perin. L’integrazione passa per la
tavola"

di
Silvana Mazzocchi

Andrea Perin, architetto ed esperto curatore di mostre e musei,
decide di scrivere quella che lui stesso definisce una raccolta "di
conversazioni sulla cucina, brevi narrazioni autobiografiche dove le
ricette "corrette", incontrando sapori e gusti di altre
tradizioni", si trasformano, si disfano e rinascono…. Ed ecco
Ricette scorrette, un piccolo libro di racconti, uscito di
recente per Elèutera, che molto bene fotografa l’attualità
culturale contemporanea, mostrando il meticciato in espansione ai
nostri giorni e quell’intreccio di contaminazioni in cui la cucina ha
un ruolo importante, partecipando (e parecchio) all’auspicato
processo d’integrazione in corso nelle società occidentali
moderne. Il cibo come valore simbolico e come elemento fortemente
identitario per ogni popolo sono la premessa di queste ricette
"scorrette", che diventano terreno d’incontro tra persone
capaci, al contrario dei sistemi, di superare più facilmente
pregiudizi, ostacoli e barriere.
Andrea Perin propone trentotto
"racconti con ricetta" che spaziano dai Rom al Camerun, dal
Giappone al Marocco, dalla Corea al Brasile, e molto altro ancora. A
rendere possibile la narrazione altrettanti intervistati: amici,
amici degli amici, o persone incrociate casualmente durante la
raccolta di voci e di memorie. Tutti hanno parlato con l’autore del
loro cibo, dei loro paesi, delle loro tradizioni. E ciascuno ha
fornito gli elementi chiave di una ricetta "meticcia". Ne è
uscito un libro diverso, sapiente e fascinoso, utile per tutti coloro
che sanno distinguere tra la cultura del cibo e un semplice
ricettario.

Lei è un architetto museografo, perché un libro
di ricette?

Più che un libro di ricette, cioè
un manuale che detta regole per la buona cucina, è una
raccolta di racconti e testimonianze. Intendiamoci, mi piace mangiare
e cucinare, ma non sono un cuoco e non ho apportato modifiche alle
ricette che mi hanno raccontato: le ho semplicemente raccolte.
Non
esiste un collegamento diretto tra la mia professione e il libro, ma
punti di contatto sì. Ritengo che l’allestimento di un museo o
di una mostra sia una forma di comunicazione non verbale, che
attraverso una grammatica fatta di materiali, colori, disposizione
degli oggetti e luci sia in grado di evocare e completare la
conoscenza delle opere e di ciò che viene esposto. Una
narrazione senza parole offerta al visitatore.
In questo libro si
trovano ricette, ma soprattutto si leggono i racconti delle persone
che ho incontrato: attraverso le loro parole e le loro esperienze la
cucina entra nell’ambito della conoscenza e del significato del cibo.
Diventa l’occasione per narrare episodi di incontro tra tradizioni e
abitudini diverse, storie di accoglienza e di scambio, oppure di
rifiuto. La cucina si rivela così non solo pratica del gusto,
ma anche un luogo per comunicare.
Cucina meticcia, quale
intreccio di culture riflette?

La cucina italiana, una delle
poche cose che risveglia ancora l’orgoglio nazionale, ha come tutte
le cucine un percorso meticcio fatto di nuovi ingressi,
contaminazioni, incontri legati alle conquiste subite e a quelle
fatte, ai commerci, alle migrazioni. Sono processi che spesso hanno
richiesto secoli ma che ora, nel pieno della globalizzazione
economica che muove persone, merci e informazioni in ogni parte del
globo, diventano più forti e seguono processi potenzialmente
più veloci.
Ora tutti gli alimenti sono disponibili sul
mercato e stuzzicano potenzialmente la curiosità ai fornelli:
come trattenersi dal provare qualche verdura nuova in piatti
consueti?

La presenza di persone nuove inserisce piatti
diversi nella quotidianità, che poi a loro volta si
contaminano. Il kebab per esempio, magnifico piatto da strada, è
diventato ormai una consuetudine per molti e spesso lo troviamo sulla
pizza, sulla bruschetta e via così.
Come le ricette, anche
la convivialità e l’ospitalità ricevono nuova vivacità
dall’incontro. E questo porta a conoscenze che allargano le
prospettive. Certo, in cucina ci vogliono curiosità,
disponibilità e gioia: ma il gusto non è innato, si
impara con l’esperienza e si può modificare e ampliare.

Quando ero piccolo, a Milano, era ugualmente esotico andare al
ristorante cinese o alla taverna pugliese. Ora sono diventate
abitudini quotidiane.
Ma niente di tutto questo è
prevedibile o progettabile: il fascino del meticciamento risiede
anche
nella mancanza di una gerarchia prestabilita tra le parti,
nel suo sviluppo impossibile da guidare soprattutto in cucina. Non si
può definire a tavolino, succede da solo oppure non succede
affatto.
Lei scrive che il mondo è assetato di
identità. Che ruolo ha il cibo nel processo d’integrazione?

Per qualsiasi popolazione la cucina è un elemento che
contribuisce a costruire la percezione dell’identità,
soprattutto per coloro che sono costretti a risiedere in un paese
straniero: si cambiano abitudini, lingua e si rispettano nuove leggi,
ma si cercano conferme della propria appartenenza nel cibo,
specialmente quello casalingo, che rimane nell’ambito strettamente
personale, familiare o di gruppo.
Di contro, la cucina è
anche uno dei veicoli più semplici di comunicazione e di
scambio, può diventare il momento di incontro in cui si opera
una possibile mediazione delle identità; soprattutto
attraverso la contaminazione quotidiana che chiunque, nella propria
casa, porta avanti quasi senza accorgersi. In barba ai ricettari,
spesso si cucina con quello che si ha nel frigorifero, oppure in base
ai prodotti del mercato o all’ispirazione del momento. Molti già
meticciano le proprie pietanze, spesso senza rendersene conto. Ed è
un processo credibilmente destinato a germogliare, non inaridirsi.

Sarebbe ingenuo pensare che a tavola si possano risolvere le
questioni legate alla convivenza, al razzismo o alla xenofobia, ma la
quotidianità è un punto di partenza importante per
affrontare e superare questi temi. Può essere stimolante
considerare che, anche in un aspetto così tipicamente italiano
come la cucina casalinga, l’arrivo delle nuove culture rappresenti
una risorsa e non un limite.

(10 luglio 2009)

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