Ancora una ricetta di Enrico. Il titolo è divertente e azzeccato, e potrebbe suggerire anche una riflessione sul valore dell’esotismo in cucina.
È un termine che di solito si usava per definire un piatto diverso dal consueto, con ingredienti “stranieri” che gli conferivano un sapore inconsueto; oggi mi sembra sostituito dal termine “etnico”, ritenuto forse più politicamente corretto. Ambedue non vogliono dire molto, sono fumosi e indistinti, implicano categorie del “qui” e “altrove” che in cucina si superano in un attimo: gli ingredienti “stranieri” diventano in fretta quotidiani e l’esotismo svanisce. Una volta di più: non esiste scorrettezza in cucina, esiste una realtà in movimento ed esistono i gusti, personali ed eventualmente condivisi.
Divertente insomma questo titolo, in una ricetta dove lo (pseudo) esotismo è dato da una combinazione inconsueta di ingredienti consueti. Buon appetito.
La ricetta dello spezzatino pseudo-esotico è frutto di una personale, a volte inopportuna, combinazione tra curiosità e pigrizia. Se infatti mi diverte molto leggere ricettari, e ancora di più se di paesi lontani, spesso però mi spazientisco pensando a dove potrei procurami gli ingredienti richiesti. Ovviamente trovare ingredienti insoliti a Milano è ogni anno sempre più facile, tuttavia l’idea di partire in viaggio per un fruttivendolo o un droghiere dall’altra parte della città continua ad essermi poco gradita.
Così il mio lato pigro, dopo una serie di prove e assaggi, è approdato negli anni a una semplice ricetta ma dal gusto esotico, per la realizzazione della quale solo servono ingredienti comunissimi. Si tratta di un normale spezzatino di carne, il cui insolito sapore è dato dall’aggiunta di peperoncino, limone e miele (oppure zucchero).
Ma per spiegare come sia arrivato a tale risultato, bisogna tornare indietro di 15 anni, quando mi regalarono un libro di cucina a cui ora sono affezionato come a un balocco dell’infanzia. Si tratta del mio primo ricettario in inglese, ricco d’immagini e molto divulgativo, dono di un’amica che vive a Londra da anni. Ecco l’indicazione bibliografica: Sarah Woodward, intitolato The Classical Mediterranean Cookbook, London, Dorling Kindersley, 1995.
Editore e autrice inglesi, ma nostrano l’argomento, o almeno così può sembrare prima di aprire il volume (ricordo di essermi chiesto come mai l’amica avesse deciso di regalarmi un libro inglese su tale tema). Il libro fu invece una vera sorpresa perché fornisce una bella selezione di ricette da tutte le cucine che si affacciano sul Mediterraneo. Un’impostazione molto originale che offre ricette non solo spagnole, catalane, provenzali, italiane e greche, ma anche marocchine, tunisine, egiziane, libanesi e turche! Allora non avevo ancora visitato alcun paese arabo, e se qualcosa già sapevo di ricette italiane, ero invece all’oscuro di cosa succedesse in cucina dall’altra parte del mare. Devo quindi a questo libro il mio primo incontro con la gastronomia nordafricana.
Confesso però di aver sospettato all’inizio che le ricette fossero, per così dire, un po’ anglicizzate, cioè rappresentazioni non troppo fedeli delle cucine d’origine. Ma dato che il libro forniva un bel gruppetto di ricette italiane, mi sono detto, controlla quelle, e se sono rispettose, potrai fidarti anche delle altre. E così ho fatto, ho esaminato parmigiana, caponata e zuppa di pesce e non ho trovato nulla che mi turbasse.
Potevo quindi procedere tranquillo nella lettura delle ricette dell’altra sponda del Mediterraneo, e due cose mi colpirono subito, la varietà delle spezie usate e il limone quasi onnipresente, come succo o a pezzi, fresco o conservato sotto sale.
Dopo tutto quell’assaporare leggendo, non so dire perché ma sono passato all’azione solo con due ricette, ripetendole anche più volte, per vedere come sortissero mettendo o togliendo questo o quello. Le due prescelte furono Couscous aux sept legumes, prelibatezza dal Marocco, e Khoshaf, una macedonia di frutta secca ammollata e profumata da acqua di rose e fiori d’arancio.
Comunque, il mio prediletto è stato a lungo il couscous delle sette verdure, la cui ricetta S. Woodward commenta così: “The key to couscous is not the fine semolino grain itself, but the luxuriant sauce with wich it is served. This version from the magical Maroccan city of Fez brings together the produce of the vegetable market in a delicately spiced broth. You can use whatever vegetable are available, but there must always be seven for luck” (p. 131).
Mi è sempre piaciuto il tono perentorio di certe ricette, in questo caso mi divertiva molto la consegna di rispettare il sette per la fortuna. Ma ciò che allora trovavo addirittura esilarante era lo squadrone impressionante di ingredienti da mettere in campo. Ai primi esperimenti, mentre controllavo che ci fosse tutto prima di cominciare, mi sembrava di essere a scuola al momento dell’appello: Coriandolo? Presente. Curcuma? Presente. Uva Passa? Uva Passa, non c’è? Prof, c’è. E’ in bagno!
Scrivo di seguito gli ingredienti previsti, dite un po’ se non sono un battaglione: Agnello o pollo (opzionali), burro, sale, aglio, cipolle, pomodori, cannella, zafferano, curcuma, pepe, coriandolo e prezzemolo freschi, uva passa, ceci secchi, carote, rape, zucca, zucchini, fave e piselli freschi, couscous e harissa.
Fin dai primi tentativi non ho mai preso in considerazione di rinunciare a cuocere le verdure nel brodo di carne, ho provato sia pollo che agnello, e ho concluso che preferisco il secondo. C’era poi la questione del burro, 90 grammi mi sembravano troppi, all’inizio ne ho usato meno e con riluttanza, ma poi mi sono reso conto che proprio ci vuole, senza è altra cosa. Quindi la questione del coriandolo per il quale non nutro simpatia, problema che ho risolto semplicemente facendone a meno. E infine, anche se non previsto, ho deciso che avrei usato il limone. Nelle altre ricette nordafricane compare davvero quasi sempre, dunque perché non metterlo anche in questa, tanto più che mi sembrava ideale per smorzare un po’ il sapore dell’agnello. È da allora che ho cominciato ad introdurre almeno mezzo limone in quasi tutti i brodi di carni e verdure (e se i limoni non sono trattati lascio anche la buccia).
Ora immaginate, per concludere, di sfrondare senza pietà la ricetta marocchina, per trasformarla in un piatto pronto in mezz’ora e fatto con quello che in casa c’è sempre. Ecco ciò che resta: carne, sale, aglio, cipolle, carote, sedano, pomodori, peperoncino, limone e miele (o zucchero). Come si può notare sul peperoncino cade l’onere di sostituire tutte le spezie, e se non si aggiungesse limone e miele la suggestione esotica se ne andrebbe del tutto. Alla fine è semplicemente un piatto piccante in agrodolce, ma stuzzica per il sapore inconsueto, perlomeno ai palati padani.
La preparazione è a naso e a calderone, la carne va soffritta con aglio e peperoncino, si aggiungono poi cipolle, carote e sedano tagliati grossolanamente, vengono quindi i pomodori e il limone (mezzo o intero se non è molto succoso), acqua se necessaria, sale e, verso la fine, il cucchiaio miele. Non trattenetevi dall’assaggiare, anche più di una volta, per verificare che agro, dolce e piccante siano ben apparentati. Trovo che il piatto sia migliore tiepido, il riso bianco accompagna benissimo.
Enrico Venturelli, enrico.venturelli@libero.it