Probabilmente, è stata la prima volta che ho consapevolmente preparato una ricetta scorretta, o perlomeno è l’episodio che mi è sempre rimasto in un angolo della memoria finché non si è sviluppata l’idea di scrivere il libro.
L’ossobuco per me non è un piatto normale, direi che rappresenta una pietanza quasi
auto-identitaria. Me lo cucino quasi sempre da solo (caso raro, le ricette che mi piacciono desidero sempre condividerle), soprattutto quando sono triste per mettermi di buon umore, oppure quando sono allegro per godermi lo stato d’animo. Quando torno da un lungo viaggio, è il piatto che desidero mangiare per primo.
Secondo la tradizione milanese l’ossobuco si accompagna con il risotto giallo, ma io preferisco il riso bianco che esalta il gusto del sugo e della carne e soprattutto è più veloce da preparare.
Quella sera, qualche anno fa, lo stavo cucinando come mi piace: leggermente infarinato, scottato in burro spumeggiante e aglio, tirato a cottura con vino rosso allungato con
un goccio d’acqua; alla fine un trito di buccia di limone e prezzemolo, e poi pepe. Carne di vitellone ovviamente, più dura del vitello ma molto più saporita del vitello.
Però, nonostante la mia convinzione, di riso ce n’era pochissimo in dispensa (meno di un etto e mezzo mi mette tristezza). La sostituzione co