Ma anche ravioli ripieni di manzo o di
pollo (in scatola) e ragù “alla bolognese” (in barattolo
di vetro), oppure Paella
(precotta). Tutti
halal, cioè
leciti secondo la religione islamica e certificati dalla grande
moschea di Parigi.
Si tratta di una linea di prodotti
francesi (Zakia è la ditta) che offrono piatti europei
realizzati con ingredienti che li rendono ammissibili al musulmano.
Nei giorni di Ramadam la televisione d’oltralpe ha trasmesso uno spot
nel quale una coppia di beurgeois (neologismo da beur
– africani e bourgeois – borghesi) si riempiono il
carrello di lasagne in scatola e altri cibi confezionati di questa
ditta.
http://www.youtube.com/watch?v=sLUFru_zUYc
La notizia (che ho trovato su un
trafiletto di “Il venerdì di Repubblica) appare a un primo
sguardo curiosa e divertente; se non meticcia, almeno capace di
suggerire la possibilità di superare certi meccanismi
identitari in cucina.
In realtà questi cibi
confezionati sono un prodotto squisitamente commerciale: il mercato
dei prodotti halal è uno dei più grossi business, in
continua espansione in tutta Europa.
E francamente il raviolo in scatola mi
fa anche un po’ di tristezza (pensavo fosse praticamente scomparso,
USA a parte), mentre l’irritazione verso la lasagna precotta e il
sugo in barattolo è attenuata solo dal fatto che ormai sono
una molesta costante degli scaffali italiani.
Anche la pubblicità, ambientata
in un supermercato frequentato da soli nordafricani e ristretta a un
pubblico dai contorni “etnici” chiusi, può assumere toni
xenofobi.
Non che in Italia vada meglio. Nel sito
etnica.biz, dedicato al marketing etnico, è affrontato il tema
della xenofobia nella comunicazione. Riporto un breve brano dal sito:
(…) È
sufficiente esaminare la comunicazione della maggior parte delle
organizzazioni economiche italiane per notare come siano tutte
impegnate, come osservato da Bernard Cova (Il Marketing tribale, Il
Sole 24 Ore, Milano, 2003), ad analizzare e comprendere l’uomo
medio e di come la monocultura italiana – bianca, cattolica,
normodotata, eterosessuale, iperattiva, politicamente moderata –
domini tutta la loro strategia.
Le imprese
italiane si dichiarano differenti, creative e innovative ma in realtà
sono dominate dal pensiero unico e tutti i giorni lavorano per
rafforzare la normalità, la tradizione, la ragione, la
sicurezza, la tranquillità, il buon senso (nel gergo
marketing, il mainstream).
Sono in gran parte
terrorizzate dall’idea di contaminare la propria cultura e la
propria immagine con “negri”, musulmani, gay ed handicappati e
perdere così la clientela “normale” ben rappresentata da
imprenditori e manager trentenni e glamour, da famigliole bianche,
belle e felici.
E continuano a
discriminare le donne come provato dal Gender Gap Index elaborato dal
World Economic Forum (…).
Il marketing è
xenofobo. Ha letteralmente paura del diverso, dell’estraneo,
dell’insolito. Spesso la xenofobia del marketing diventa razionale
anche se – con eccezione dei partiti politici e dei media – la
comunicazione non fa lo trasparire perché, per ora, esiste una
normativa (i decreti legislativi 125 e 126 del 9 luglio 2003) che
dovrebbe garantire parità di trattamento – indipendentemente
dal genere, dall’origine razziale o etnica, dalla religione
professata, dagli handicap, dell’orientamento sessuale, delle
convinzioni personali e dell’età – nell’accesso al
lavoro, negli avanzamenti di carriera, nella retribuzione, nella
formazione, nella sicurezza sociale, nell’assistenza sociale,
nell’istruzione e nell’accesso a beni e servizi.
Una normativa che
dovrebbe essere fatta applicare dall’Ufficio nazionale
antidiscriminazioni razziali (Unar) che dipende direttamente dalla
Presidenza del Consiglio di Ministri e che non ha
ancora pubblicato il rapporto relativo al 2008. (…)
Enzo
Mario Napolitano, IL MARKETING È XENOFO!
agosto 2009