Parafrasando un famoso testo con
cui Ralph Linton proponeva ai suoi studenti la prima lezione di
antropologia culturale1,
potremmo immaginare una storiella di questo tipo:
un qualsiasi
abitante di una qualsiasi città del nord Italia si alza la
mattina e si siede a tavola per la colazione: beve una tazza di
caffè, originario della penisola arabica, o una tazza di tè,
bevanda indiana, addolciti con un cucchiaio di zucchero, raffinato
per la prima volta in India. Mangia una fetta di pane, importato
nell’Italia pre-latina dai Greci, con una marmellata di albicocche
(di origini cinesi). Se si comporta da salutista, prende anche uno
yogurth, il vitto dei poveri in Turchia, e una spremuta di arancia,
frutto proveniente dall’Oriente tramite gli arabi.
A
pranzo si mangia un bel piatto di risotto alla milanese: sia il riso
che lo zafferano arrivano dall’Oriente. Di secondo una cotoletta
alla milanese, cotta con una tecnica, l’impanatura e la frittura,
comune a tutte le culture; la guarnisce con patate arrosto, giunte
dall’America, o spinaci, originari del Nepal.
A
cena ovviamente polenta (il mais arriva sempre dall’America),
magari con il tacchino ripieno alla milanese (altro animale
americano) o la mitica Cassoeula (il maiale venne addomesticato per
la prima volta in Cina, circa 10.000 anni fa).
Prima
di andare a letto si beve un grappino (i distillati giunsero in
Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando con orrore a quanto
gli immigrati possano inquinare la sua cultura, “ringrazia una
divinità ebraica”2
di averlo fatto al cento per cento padano.
da Andrea
Perin, La fame aguzza l’ingegno. Cucina buona in tempi difficili,
Elèuthera, Milano 2005, p. 11
1
Riportato
in Marco Aime, Eccessi
di culture,
Einaudi, Torino 2004, p. 24/26
2
Dal
testo originale