libro: “L’integrazione attraverso i fornelli”

“La cucina gioca un ruolo infraculturale molto importante” scrive Marco Marcocci nella prefazione (”Cosa bolle in una pentola multietnica”) del libretto L’integrazione attraverso i fornelli, curato dall’Associazione di Volontariato Migranti e Banche.

Sempre di più si riconosce il ruolo che la cucina ha come veicolo di incontro tra culture, e non solo come elemento identitario che divide. Questo libretto si distingue dagli altri che spesso vengono prodotti sia per l’attenzione che denuncia verso il valore del meticciato, un passo significativo oltre il semplice scambio e la conoscenza, ma anche per l’accuratezza del suo apparato.

Le ricette sono divise in capitoli per le aree di provenienza, ognuno con un’attenta e interessante introduzione che racconta le dinamiche di insediamento e le caratteristiche sociali dei nuovi italiani.

Anche le ricette stesse sono accurate, spesso differente da quelle consuete che vengono riportate nei libri (ad esempio la Causa peruviana, che mi era piaciuta molto in un ristorante a Milano), con note di approfondimento.

Purtroppo non è distribuito e per averlo bisogna richiederlo direttamente all’Associazione (contributo volontario), ma mi hanno detto che sta avendo un buon successo e perciò conviene affrettarsi!

Di seguito il testo della prefazione che ho scritto per il volume.

Ricette Scorrette

“Questa è la ricetta giusta!”. È una frase che mi lascia sempre perplesso. Rappresenta la rigidità della convinzione che la cucina è una formula esatta, afferma che esiste un sapore “giusto” e uno “sbagliato” e nega che il gusto è assolutamente soggettivo e non istituzionale. Chiunque sia abituato a spignattare sa benissimo che di ogni piatto esistono tante versioni quante sono le persone interpellate, addirittura la stessa pietanza può variare da un giorno all’altro: dipende da cosa si ha nel frigorifero, dal tempo a disposizione, dai gusti propri e dei commensali. Cucinare è un estro del momento e non una pratica ripetitiva, anzi si modifica nel tempo e si arricchisce di nuovi stimoli e nuovi ingredienti.

Quando ero adolescente ad esempio, nella Milano degli anni Settanta, era ugualmente esotico andare al ristorante cinese o alla taverna pugliese. La mamma tornava dal mercato con sapori nuovi: cime di rapa, broccoletti, scamorza affumicata… Per noi, cresciuti a risotti e brasati, erano gusti particolari che ci incuriosivano e ci mostravano, forchetta alla mano, che c’era tutto un mondo da conoscere.

Oggi Milano è cambiata e, mentre le cime di rapa sono diventate una quotidianità e l’olio extravergine di oliva ha ormai quasi sostituito il burro, la società italiana si sta arricchendo ogni giorno di più di nuovi arrivi, nuove persone e nuove culture. Nei negozi e nei mercati, nelle feste e nei ristoranti c’è un mondo di tentazioni gastronomiche, di sapori e ingredienti neanche mai immaginati. Le città sono diventate un mosaico di cucine diverse. Sociologi e studiosi a volte sostengono e scrivono che la cucina è un fattore di identità, che l’uomo è quello che mangia: il migrante, adattatosi a cambiare lingua e abitudini, si affida al cibo per tenere stretto l’ultimo legame con la propria identità culturale; in pratica, vive in Italia ma mangia come fosse nella sua casa di origine.

Qualche volta politici e amministratori, con la scusa di favorire le eccellenze locali e difendere le supposte tradizioni che affondano in lontane e mitiche radici, cercano di delimitare le varie cucine al chiuso delle rispettive comunità perché non si insinuino nella tradizione italiana (“no al kebab! No al cous cous! Sì alla polenta!”).

Ma la realtà per fortuna è molto più complessa e variegata, sopratutto è permeabile agli incontri e anche senza volerlo si inciampa ovunque nei nuovi sapori. La cucina è un magnifico ponte che unisce e non divide, e se cucinare i piatti della propria tradizione è il sistema più spontaneo ed emotivo per entrare in contatto con gli “altri”, è facile imparare i nuovi gusti e farli propri: si intrufolano nella quotidianità, si aggiungono alle solite pietanze e a volte modificano i piatti consueti facendo assumere nuove sfumature.

Da amici e conoscenti ho imparato ad esempio a cucinare con l’okra e il latte di cocco, con i legumi più impensati e le spezie più profumate. Ho visto condire la pizza e la pasta con i sughi più insospettabili, adattare i piatti alle risorse locali e “aggiustarli” con ingredienti prima sconosciuti; oppure accostare con disinvoltura pietanze delle differenti tradizioni.

Per comodità la possiamo chiamare cucina meticcia, il risultato di incroci di tradizioni diverse senza gerarchia, ma in realtà si tratta semplicemente di cucina quotidiana, della normale disponibilità a farsi sedurre dalle cose nuove. Il meticciato stesso è una condizione strettamente connessa allo sviluppo storico di ogni cultura, è una modifica in corso d’opera fatta di incontri, incroci e modifiche: sbaglia chi afferma che la propria tradizione è pura, incontaminata o immutata. Oppure è in malafede. Anche l’identità, termine caro a chi non vuole modificare nulla, è una realtà in movimento.

Il meticciato è un processo che non si può fermare, silenziosamente al lavoro anche nell’Italia di oggi. Però si può aiutare ad esempio aprendo questo libro per leggere le ricette e lasciarsi affascinare dai sapori che suggeriscono.

(p. 10-12)

 

Informazioni su Andrea Perin

Architetto museografo, cultore della cucina per passione
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